avvocato di giuliomaria

Il presente contributo ripercorre le modifiche introdotte con la riforma del diritto penale tributario operata con il decreto legge 26 ottobre 2019, n. 124, così come convertito in legge con modificazioni dalla legge 19 dicembre 2019, n. 157, il quale, da un lato, ha riformato il testo del D. Lvo. 10 marzo 2000, n. 74, modificando la disciplina relativa a talune fattispecie penali tributarie ed estendendo l’applicabilità ad alcuni reati tributari della c.d. confisca “allargata”, dall’altro, ha inserito un nuovo articolo nel D. Lvo. 8 giugno 2001, n. 231, aggiungendo alcuni reati tributari al catalogo dei reati presupposto della responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato.

La legge 19 dicembre 2019, n. 157 ha convertito in legge, con modificazioni, il decreto legge 26 ottobre 2019, n. 124 il quale – nell’ambito di un intervento di più ampio respiro in materia fiscale di contrasto all’evasione – con l’art. 39 ha introdotto modifiche alla disciplina penale in materia tributaria e ha inserito alcuni reati tributari nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato.
La riforma del diritto penale tributario è stata operata, in primis, attraverso un intervento sul testo del D. Lvo. 10 marzo 2000, n. 74 caratterizzato in generale da maggiore severità nella repressione dell’illecito tributario. In particolare, l’intervento è stato operato attraverso l’aumento delle pene edittali, minime e massime, di alcuni reati tributari, l’abbassamento di alcune soglie di rilevanza penale, l’estensione della confisca “allargata” di cui all’art. 240 bis c. p. ad alcuni reati tributari.
Ed invero, molteplici le fattispecie tributarie oggetto di intervento.
La riforma del diritto penale tributario ha riguardato, in primo luogo, l’articolo 2 del D. Lvo. 74/2000 concernente il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
La fattispecie in esame punisce “chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi”.
Il secondo comma della norma precisa che, affinché venga integrato il reato, le fatture o gli altri documenti per operazioni inesistenti devono essere registrati nelle scritture contabili obbligatorie o detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria.
La norma non prevede soglie di rilevanza penale del fatto.
Il legislatore è intervenuto, in primis, sulla cornice edittale della pena prevista, che è passata dalla reclusione da un anno e sei mesi a sei anni alla reclusione da quattro a otto anni. Ad un aggravamento della risposta sanzionatoria ha corrisposto l’introduzione – con il nuovo comma 2bis – di una soglia di rilevanza penale al di sotto della quale la fattispecie è considerata di minore gravità. In particolare, qualora l’ammontare degli elementi passivi fittizi sia inferiore ad euro centomila la pena prevista è quella pre-riforma della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni. Soltanto le applicazioni giurisprudenziali chiariranno se tale previsione abbia introdotto una circostanza attenuante oppure una fattispecie autonoma di reato, sussistendo a sostegno di entrambe le tesi argomentazioni fondate e giuridicamente sostenibili.
La riforma del diritto penale tributario, ha riguardato poi il successivo articolo 3 del D. Lvo. 74/2000 – concernente il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici.
Tale disposizione, facendo salva l’applicazione dell’art. 2, punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi, quando, congiuntamente, ricorrono le condizioni previste dalla norma ed il superamento delle relative soglie di punibilità.
Anche qui, ai fini dell’integrazione del reato, i documenti falsi devono essere registrati nelle scritture contabili obbligatorie o detenuti a fini di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria.
L’intervento legislativo ha riguardato anche per tale fattispecie l’inasprimento della risposta sanzionatoria portando la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni alla reclusione da tre a otto anni.
Deve aggiungersi, con riferimento alle fattispecie appena esaminate, che la riforma del diritto penale tributario ha, inoltre, modificato l’art. 13, comma 2 estendendo alle stesse la causa di non punibilità ivi prevista. In particolare, i reati di cui agli artt. 2 e 3 (al pari dei reati di cui agli artt. 4 e 5 già previsti dal comma 2 dell’art. 13) non sono punibili se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.
La modifica dell’art. 13 – e, dunque, l’inserimento nello stesso delle fattispecie di cui agli artt. 2 e 3 del decreto tra i reati non punibili nel caso di integrale pagamento del debito tributario – ha inciso indirettamente anche sulla disciplina di accesso al c.d. patteggiamento di cui all’art. 13 bis, comma 2 del decreto per i reati in questione.
Ed invero, tanto la causa di non punibilità quanto l’accesso al rito del c.d. patteggiamento vedono quale loro presupposto l’integrale pagamento del debito tributario. Al fine di evitare una contraddizione interna del sistema, la giurisprudenza è intervenuta nel tempo per chiarire il discrimen operativo delle due norme, problematica che in seguito alla riforma in commento si pone anche in relazione ai reati di cui agli artt. 2 e 3 del decreto. Orbene, può ritenersi – salvo mutamenti interpretativi post riforma – che l’indirizzo ormai accolto dalla giurisprudenza in relazione agli artt. 4 e 5 già previsti dall’art. 13, comma 2, possa ritenersi applicabile anche alle nuove fattispecie di cui agli artt. 2 e 3 oggetto di ultima introduzione nella norma (sul punto cfr. Cass. Pen., sez. III, 2 ottobre 2019, n. 47287).
La riforma del diritto penale tributario ha interessato, poi, l’articolo 4 del D.Lvo. 74/2000 disciplinante il delitto di dichiarazione infedele. Tale fattispecie – facendo salva l’applicazione dei precedenti artt. 2 e 3 del medesimo decreto – punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando congiuntamente ricorrono le condizioni previste dalla norma e vengono superate le soglie di rilevanza penale ivi indicate.
Il legislatore ha riformato tale fattispecie, in primis, mediante l’aggravamento della pena edittale, che è passata dalla reclusione da uno a tre anni alla reclusione da due a quattro anni e sei mesi.
Inoltre – con l’effetto di anticipare la tutela penale dell’illecito fiscale – l’intervento riformatore ha abbassato le soglie di punibilità superate le quali la condotta assume rilevanza penale. In particolare, al comma 1 lettera a) della norma in commento, l’ammontare dell’imposta evasa, superata la quale il comportamento diviene penalmente rilevante, è passata da euro 150.000 ad euro 100.000; quanto alla lettera b) del medesimo comma, l’ammontare degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, deve essere superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, superiore ad euro due milioni, contro gli euro tre milioni precedentemente previsti.
Infine, il legislatore ha mantenuto la causa di non punibilità prevista dal comma 1 ter del medesimo articolo, restringendo, tuttavia, la sua operatività alla condizione che le valutazioni “complessivamente” considerate – e non più “singolarmente” come previsto dal testo previgente – differiscono in misura inferiore al 10% da quelle corrette. Si considera, dunque, al fine dell’irrilevanza penale l’effetto congiunto delle singole valutazioni scorrette.
La riforma del diritto penale tributario ha modificato, inoltre, il delitto di omessa dichiarazione di cui all’articolo 5 del D. Lvo. 74/2000. Tale disposizione punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l’imposta evasa è superiore con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro 50.000. Tale delitto risulta integrato anche dall’omessa presentazione della dichiarazione da parte del sostituto di imposta quando l’ammontare delle ritenute non versate è superiore ad euro 50.000.
Il legislatore è intervenuto in senso repressivo attraverso l’aumento della pena edittale – tanto per l’omessa dichiarazione del contribuente quanto per quella del sostituto di imposta – che è passata dalla reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni alla reclusione da due a cinque anni.
La riforma del diritto penale tributario è poi intervenuta sull’articolo 8 del D. Lvo. 74/2000, che punisce chiunque, al fine di consentire a terzi delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
L’articolo 8 trova il suo corrispondente nell’art. 2 del medesimo decreto, norme che puniscono rispettivamente la condotta di chi emette la fattura o altro documento per operazioni inesistenti e quella di chi la utilizza nella propria dichiarazione. In relazione a tali fattispecie, la regola generale fissata dall’articolo 110 c.p. in tema di concorso di persone nel reato, trova deroga nell’art. 9 del decreto, che esclude la rilevanza penale del concorso dell’utilizzatore nelle condotte del diverso soggetto emittente e viceversa.
Proprio quali facce della stessa medaglia, il legislatore ha modificato l’art. 8 in modo del tutto identico rispetto al corrispondete art. 2 del medesimo decreto.
Ed invero, è stata inasprita la risposta sanzionatoria elevando la pena prevista da un anno e sei mesi a sei anni alla reclusione da quattro a otto.
Allo stesso modo ad una maggiore risposta sanzionatoria ha corrisposto l’introduzione di una soglia di punibilità al di sotto della quale il reato è considerato meno grave. Ed invero, il nuovo comma 2 bis dell’art. 8 prevede che se l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d’imposta, è inferiore ad euro 100.000 si applica la pena previgente della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.
Vale anche per tale fattispecie la considerazione operata circa il dubbio dell’introduzione di una circostanza attenuante o di una fattispecie autonoma di reato.
La riforma è, infine, intervenuta sul delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili di cui all’articolo 10 del D. Lvo. 74/2000. Tale fattispecie punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge tutto in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari.
In relazione a tale delitto il legislatore ha previsto l’aumento della pena dalla precedente reclusione da un anno e sei mesi a sei anni alla reclusione da tre a sette anni.
Tutti gli interventi di riforma finora esposti – così come quelli concernenti la responsabilità amministrativa degli enti che vedremo in seguito – hanno efficacia dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della legge di conversione. Siamo di fronte, dunque, ad un decreto legge ad efficacia temporale differita, il quale – non producendo effetti immediati nell’ordinamento – si pone probabilmente in contrasto con i presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77 Cost. Non si pone, tuttavia, in tal modo alcuna questione intertemporale con riguardo alla successione tra decreto-legge e legge di conversione.
Aspetto particolarmente rilevante della riforma del diritto penale tributario concerne l’estensione della confisca “allargata” anche a taluni reati tributari.
Ed invero, l’istituto della confisca era già stato introdotto nel testo del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 con la riforma operata con il D. Lvo. 24 settembre 2015, n. 158, che aveva disciplinato la confisca con riferimento ai reati tributari – precedentemente contenuta nella legge finanziaria per il 2008 che operava un rinvio all’art. 322-ter c.p. – nel nuovo art. 12 bis. La norma prevede che nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p., è sempre ordinata la confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo, salvo il caso che appartengano a persona estranea al reato (c.d. confisca diretta) ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, nella disponibilità del reo, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto (c.d. confisca per equivalente).
La riforma del diritto penale tributario in esame ha esteso ai reati tributari anche la confisca “in casi particolari” o “allargata” – introdotta originariamente nel sistema normativo per far fronte a reati di una certa gravità idonei a creare una accumulazione di ricchezza illecita con successivo possibile reimpiego – misura di maggiore efficacia in quanto sganciata dalla dimostrazione di un nesso di strumentalità tra beni e reato.
Il nuovo articolo 12 ter prevede che, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’art. 444 c.p.p., per alcuni delitti indicati nella medesima norma, si applica l’art. 240-bis c.p., il quale, a sua volta, prevede la confisca di denaro, beni o altre utilità di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al reddito dichiarato o alla propria attività economica.
L’applicazione della confisca “allargata” concerne solo talune fattispecie penal-tributarie opera solo in seguito al superamento di determinate soglie. In particolare:

  • nel caso del delitto di cui all’art. 2 del decreto, quando l’ammontare degli elementi passivi fittizi è superiore ad euro duecentomila;
  • nel caso del delitto di cui all’art. 3 del decreto, quando l’imposta evasa è superiore ad euro centomila;
  • nel caso del delitto di cui all’art. 8 del decreto, quando l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti è superiore ad euro duecentomila;
  • nel caso del delitto di cui all’art. 11, comma 1 del decreto, quando l’ammontare delle imposte, sanzioni e degli interessi è superiore ad euro centomila;
  • nel caso del delitto di cui all’art. 11, comma 2 del decreto, quando l’ammontare degli elementi attivi inferiori a quelli effettivi o degli elementi passivi fittizi è superiore ad euro duecentomila.

Il legislatore, inoltre, ha precisato che le disposizioni relative alla confisca si applicano esclusivamente alle condotte poste in essere successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto.
Tale precisazione ha la funzione di derogare alla disciplina ordinaria concernente le misure di sicurezza, così qualificata la confisca dalla giurisprudenza. Ed invero, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che il principio di irretroattività non valga per le misure di sicurezza, in virtù del combinato disposto degli artt. 25, comma 3 Cost., 199 e 200 c.p. In particolare, l’art. 200 c.p. dispone che le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione (principio tempus regit actum). Secondo la giurisprudenza, dunque, le misure di sicurezza possono trovare applicazione anche con riferimento a reati commessi antecedentemente alla previsione per gli stessi della possibile applicazione di una misura di sicurezza.
Dunque, la norma intertemporale contenuta nell’art. 12 ter, comma 1bis del decreto, è intervenuta proprio in deroga alla disciplina legislativa generale ed alla relativa interpretazione giurisprudenziale, disponendo che la confisca allargata in materia di reati tributari potrà essere disposta solo in relazione a reati commessi dopo l’entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge.
La riforma del diritto penale tributario ha, infine, modificato il testo del D. Lvo. 8 giugno 2001, n. 231 inserendo, con il nuovo articolo 25-quinquiesdecies, alcuni reati tributari tra i reati presupposto della responsabilità degli enti dipendente da reato con conseguente applicazione delle relative sanzioni pecuniarie.
Dunque, la commissione di un reato tributario comporta l’irrogazione nei confronti dell’ente di una sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote, per i delitti di cui agli artt. 2, comma 1, 3 e 8, comma 1D. Lvo. 74/2000 e fino a quattrocento quote, per i delitti di cui agli artt. 2, comma 2bis, 8, comma 2bis, 10 e 11 del medesimo decreto.
Qualora in seguito alla commissione dei delitti indicati l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo.
Nei casi indicati sono, inoltre, applicate agli enti le sanzioni interdittive previste dall’art. 9, comma 2, lett. c), d) ed e) del D. Lvo. 231/2001, vale a dire il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio, l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi ed, infine, il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Avv. Andrea Di Giuliomaria                                       Avv. Silvia Dello Sbarba