Internet ed i social network costituiscono la rivoluzione sociale più importante degli ultimi tempi. Il loro avvento ha modificato la vita ed i rapporti sociali delle persone oltre che il loro modo di pensare e comportarsi.
L’era digitale ha offerto la possibilità di comunicare in modo immediato e diffuso, raggiungendo con estrema facilità un numero indeterminato di persone.
Protetti dallo schermo spariscono le inibizioni, si acquista sicurezza nell’esprimere apertamente pensieri ed opinioni e si affrontano con maggior coraggio discussioni e litigi.
Non solo. I social network consentono di mostrarsi diversamente da quel che si è o addirittura permettono di creare identità fittizie. Alle infinite possibilità di informazione, connessione ed amicizia si contrappongono ambiguità, anonimato ed esposizione. Nessuno ha davvero la certezza su chi si nasconda dall’altra parte del monitor e si trova esposto a possibili inganni, giudizi, diffamazioni o molestie.
Le applicazioni di messaggistica istantanea hanno privilegiato, altresì, l’utilizzo della comunicazione in forma scritta rispetto a quella orale (telefonica o personale che sia), dando la possibilità di inviare un numero illimitato di messaggi mediante internet e di comunicare contemporaneamente con più persone.
Il “mondo virtuale”, costituito da piattaforme come Facebook, Twitter, Youtube, LinkedIn e applicazioni di messaggistica come Whatsapp, Messanger, Telegram o simili, nella loro utilità e facilità di utilizzo presentano non poche insidie. I social network, infatti, costituiscono terreno fertile per la commissione di condotte integranti fattispecie di reato, aventi conseguenze penali delle quali la maggior parte delle persone pare non avere precisa consapevolezza.
La giurisprudenza è ormai copiosa con riferimento a furti di identità, sostituzioni di persona, diffamazioni, molestie, stalking, revenge porn perpetrate proprio attraverso l’utilizzo dei social media. Ed è in questi casi che le infinite possibilità offerte da internet si scontrano con il diritto penale.
Il reato di maggiore contestazione nelle aule di tribunale è quello di diffamazione.
Comunicare nell’era digitale è semplice e veloce: ogni messaggio, video o immagine pubblicata sul web è in grado di raggiungere un numero indeterminato di persone. Tuttavia, laddove il contenuto della pubblicazione offenda una persona individuata, la condotta potrà integrare il delitto di diffamazione.
Ed invero, l’articolo 595 c. p. punisce chiunque comunicando con più persone offende l’altrui reputazione. In particolare, il reato si configura laddove taluno rivolga ad un destinatario individuabile un’espressione offensiva, percepita, anche non contemporaneamente, da parte di più persone, con la coscienza e volontà di arrecare offesa al decoro, onore e reputazione del destinatario stesso. L’espressione può dirsi offensiva laddove vada a ledere le qualità personali, morali, sociali, professionali di una data persona, compromettendone l’immagine, l’onore o il decoro.
La diffamazione è punita più gravemente qualora l’offesa sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità. Ed è proprio tale forma aggravata che la Cassazione, ormai granitica sul punto, ha ritenuto integrata in tutte le ipotesi di diffamazione a mezzo internet, proprio in virtù della potenziale capacità dell’offesa di raggiungere un numero indeterminato o comunque apprezzabile di persone, dato il carattere pubblico dello spazio virtuale e la possibile sua incontrollata diffusione.
La condotta diffamatoria si distingue da quella integrante l’ingiuria – divenuta illecito civile in seguito alla depenalizzazione operata con D.Lvo. 15 gennaio 2016 n. 7 -, che consiste, invece, nell’offesa all’onore ed al decoro di una persona presente, in assenza della percezione da parte di più persone dell’offesa medesima.
Ebbene, pubblicare pensieri, immagini, video o rivolgere espressioni dal contenuto offensivo utilizzando piattaforme social (quali ad esempio Facebook, Instagram, LinkedIn, Twitter, YouTube) integra il delitto di diffamazione nella sua forma aggravata. In particolare, a titolo esemplificativo, integra il reato pubblicare un messaggio lesivo dell’onore e della reputazione di un soggetto sulla bacheca Facebook del proprio profilo personale, su quella del destinatario o di altri oppure all’interno di conversazioni intrattenute nelle pagine delle piattaforme social.
Il delitto di diffamazione risulta, altresì, integrato laddove le espressioni offensive vengano rivolte in una chat di gruppo (whatsapp o altra applicazione di messaggistica che preveda tale funzionalità). In tale casi la Cassazione ha ritenuto configurabile il delitto di diffamazione e non l’illecito civile di ingiuria anche nell’eventualità in cui tra i fruitori del messaggio figuri la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni offensive (vale a dire la stessa persona offesa è inserita nel gruppo). Se la distinzione tra ingiuria e diffamazione riposa sulla dimensione in cui si colloca l’espressione offensiva – interpersonale tra offensore e offeso, per l’ingiuria, e mediante la percezione da parte di più persone, per la diffamazione – l’elemento per cui il messaggio inviato in una chat di gruppo sia diretto ad una cerchia di fruitori (oltre che essere percepito direttamente dall’offeso), per la Cassazione integra il reato di diffamazione (cfr. Cass. Pen., Sez. V., 17 gennaio 2019, n. 7904). Pertanto, inviare un messaggio offensivo tramite sms, whatsapp, email o simili al solo destinatario dell’offesa, integra l’illecito civile di ingiuria. Qualora il medesimo messaggio sia inviato all’interno di un gruppo di messaggistica o mediante mailing list, la condotta integra, invece, gli estremi della diffamazione.
I social network non sono soltanto possibile teatro di diffamazioni ma possono rappresentare anche terreno fertile per la commissione di condotte che integrano il delitto di sostituzione di persona.
Ed invero, l’art. 494 c. p. punisce chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici. In particolare, la condotta punita consiste nell’indurre in errore terze persone mediante una delle modalità tassativamente previste dalla norma, indipendentemente dal fatto che l’intento perseguito dall’autore sia lecito o illecito oppure non venga neppure realizzato. La condotta, infatti, deve essere posta in essere con il fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio, patrimoniale o non patrimoniale che sia, ovvero di recare ad altri un danno. Pertanto, la semplice finzione non costituisce reato ma occorre a tal fine il perseguimento di uno dei suddetti scopi.
Ebbene, la Cassazione ha ritenuto che tale reato sia configurabile anche se commesso tramite internet. La “piazza virtuale”, infatti, si sposa perfettamente con la possibilità di ingannare il prossimo celandosi dietro profili fittizi o attribuendosi o attribuendo qualità o status non veritieri. In particolare, sono state riconosciute integranti il reato di sostituzione di persona le condotte di creare un falso profilo sulle piattaforme social al fine di molestare o denigrare taluno; attribuirsi una falsa qualifica professionale (ad esempio false identità sui social network millantando posizioni professionali di prestigio per corteggiare le vittime, invitarle a falsi colloqui di lavoro o per aumentare i propri follower); creare ed utilizzare un “profilo” sui social network, utilizzando abusivamente l’immagine di una persona del tutto inconsapevole, associata ad un “nickname” di fantasia ed a caratteristiche personali negative (Cass. Pen., Sez. 5, 23 aprile 2014, n. 25774); attribuirsi un falso nome in modo da poter avviare una conversazione con soggetti che, altrimenti, non avrebbero concesso la loro amicizia e confidenza; attribuirsi un nome immaginario o quello di una persona famosa o influente oppure far credere di avere un’età diversa da quella reale per iniziare conversazioni o instaurare relazioni personali. Queste sono soltanto alcune delle condotte ritenute integranti il reato, a fronte di una casistica giurisprudenziale ormai copiosa in materia.
Il reato, inoltre, concorre con quello di accesso abusivo a sistema informatico di cui all’art. 615 ter c. p. qualora la persona acceda al profilo Facebook di un’altra e scriva o invii messaggi ad altre persone dal medesimo profilo (cfr. Cass. Pen., Sez. V, 23 marzo 2018, n. 20485).
I social network costituiscono, inoltre, strumento per porre in essere condotte maggiormente insidiose della vita altrui che possono arrivare ad integrare i delitti di atti persecutori (c.d. stalking) o minaccia.
Lo stalking, di cui all’art. 612 bis c. p., è un reato di natura abituale, ove l’autore, mediante condotte reiterate, molesta e minaccia la vittima in modo da produrre alternativamente uno degli eventi indicati nella norma. Tali eventi consistono nel cagionare alla vittima un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero, ancora, costringere la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita.
Il delitto di stalking può essere commesso anche mediante l’utilizzo dei social network, parlandosi in tal caso di cyberstalking.
Tale reato si configura nel momento in cui gli atti persecutori vengono effettuati tramite l’utilizzo dei moderni mezzi di comunicazione, come la messaggistica istantanea dei cellulari ed i social network. In particolare, ad esempio, inviare reiteratamente sms, e-mail o post sui social network o diramare foto e video della vittima, può tradursi in una condotta persecutoria integrante il reato (cfr. Cass. Pen., Sez. V, 17 settembre 2019, n. 45141).
Se la condotta non risulta idonea ad integrare il delitto di atti persecutori, l’atteggiamento molesto nei confronti di un’altra persona, potrebbe comunque integrare il reato di cui all’art. 660 c. p., il quale punisce chiunque in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero con il mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo. Per petulanza viene inteso un atteggiamento di insistenza eccessiva, di arrogante invadenza e di intromissione continua e pressante nell’altrui sfera di quiete e libertà. In particolare, la Cassazione ha ritenuto configurabile il reato interpretando in senso estensivo la nozione di luogo aperto al pubblico, ricomprendendo in questa anche i social network o le community, proprio in quanto piazze virtuali che consentono un numero indeterminato di accessi e di visioni(cfr. Cass. Pen., Sez. I, 11 luglio 2014, n. 37596).
Mediante internet ed i social network è possibile, altresì, integrare il delitto di minaccia qualora le pubblicazioni rivolte ad un destinatario individuabile abbiano contenuto intimidatorio. L’art. 612 c. p. punisce chiunque minaccia ad altri un danno ingiusto, intendendosi per minaccia la prospettazione di un male ingiusto tale da ingenerare timore o turbamento nella persona offesa.
Ebbene, il reato di minaccia risulta configurabile anche se posto in essere con modalità “a distanza” e, dunque, anche mediante l’utilizzo di sms privati o mediante le piattaforme social (cfr. Cass. Pen., sez. V, 19 aprile 2016, n. 16145).
Infine, i social network risultano anche possibili teatri di condotte integranti il c.d. revenge porn, gravemente lesivo della privacy e della dignità della persona.
In particolare, l’art. 612 ter c. p. punisce chiunque invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate. Pertanto, divulgare a terzi un contenuto sessualmente esplicito, senza il consenso della persona ritratta, integra il delitto suddetto, la cui pena è, inoltre, aggravata qualora i fatti siano commessi attraverso strumenti informatici o telematici.
Concludendo a fronte delle infinite possibilità offerte dai social network è fondamentale ponderare i propri comportamenti tenendo conto che quanto pubblicato è astrattamente visibile da un numero indeterminato di persone e che questo espone gli autori a ripercussioni anche di carattere penale.
Avv. Andrea Di Giuliomaria