La II sez. pen. della Corte di Cassazione, con la recentissima sent. n. 44733 del novembre 2022, è tornata ad occuparsi di una tematica particolarmente “tormentata” del diritto penale d’impresa, la quale non ha mancato di generare conflitti tra sezioni del Massimo Collegio, oltre che ovviamente tra operatori del diritto. Si fa riferimento al concorso tra il reato di bancarotta fraudolenta e quello di autoriciclaggio.

Nel caso di specie, il Giudice di legittimità ha ritenuto di cassare l’ordinanza del Tribunale del riesame di Roma con cui veniva annullato il sequestro preventivo – disposto dal Gip del medesimo Tribunale – finalizzato alla confisca diretta (o per equivalente) del profitto del reato di autoriciclaggio – circa due milioni di euro – in relazione al delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione.

Il Supremo Consesso, approfittando della pregevole opportunità, ha riaffermato un orientamento già fatto proprio attraverso precedenti pronunce, ribadendo a quali condizioni sia configurabile un concorso tra i due reati in esame.

Infatti, essendo pacificamente ammesso il concorso, si configura però un’immancabile condizione: la condotta posta in essere successivamente al reato di bancarotta fraudolenta deve essere concretamente idonea ad ostacolare l’individuazione dell’origine delittuosa dei beni precedentemente distratti. In altre parole, il post-factum della bancarotta deve essere dotato di un quid pluris rispetto al reato antecedente: una mera distrazione d’azienda, non seguita da alcuna ulteriore e diversa attività, non potrà prospettarsi come ipotesi di autoriciclaggio. Diversamente, la gestione dell’azienda medesima – successiva alla distrazione, s’intende – è idonea ad essere sussunta nell’alveo punitivo dell’art. 648 ter c.p., poiché in tal modo l’autore del reato di bancarotta reimmette il provento delittuoso nel circuito economico, alterando il corretto funzionamento del mercato. Accade proprio questo nella vicenda in esame, in quanto la società dichiarata fallita aveva distratto l’intero complesso aziendale, trasferendolo ad una società “satellite”: questa aveva proseguito l’attività di impresa in continuità con la prima, riuscendo addirittura a far “lievitare” notevolmente il valore dell’azienda medesima (da due a circa otto milioni di euro).

Due precisazioni – a questo punto – si ritengono doverose: in primis, il Giudice di legittimità considera l’azienda un bene con caratteristiche “dinamiche”, essendo idonea a permettere il reimpiego dell’utilità illecita conseguita in altre attività economiche o finanziarie.

In secundis e per concludere, ritenere punibile come autoriciclaggio il mero trasferimento di beni distratti dall’impresa fallita, finirebbe per sanzionare penalmente due volte la stessa condotta: dunque, si prospetterebbe una “ingiustificata sovrapposizione punitiva tra le due norme incriminatrici”, comportando un’intollerabile violazione del ne bis in idem.

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