La II sez. pen. della Corte di Cassazione, con la recentissima sent. n. 44733 del novembre 2022, è tornata ad occuparsi di una tematica particolarmente “tormentata” del diritto penale d’impresa, la quale non ha mancato di generare conflitti tra sezioni del Massimo Collegio, oltre che ovviamente tra operatori del diritto. Si fa riferimento al concorso tra il reato di bancarotta fraudolenta e quello di autoriciclaggio.

Nel caso di specie, il Giudice di legittimità ha ritenuto di cassare l’ordinanza del Tribunale del riesame di Roma con cui veniva annullato il sequestro preventivo – disposto dal Gip del medesimo Tribunale – finalizzato alla confisca diretta (o per equivalente) del profitto del reato di autoriciclaggio – circa due milioni di euro – in relazione al delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione.

Il Supremo Consesso, approfittando della pregevole opportunità, ha riaffermato un orientamento già fatto proprio attraverso precedenti pronunce, ribadendo a quali condizioni sia configurabile un concorso tra i due reati in esame.

Infatti, essendo pacificamente ammesso il concorso, si configura però un’immancabile condizione: la condotta posta in essere successivamente al reato di bancarotta fraudolenta deve essere concretamente idonea ad ostacolare l’individuazione dell’origine delittuosa dei beni precedentemente distratti. In altre parole, il post-factum della bancarotta deve essere dotato di un quid pluris rispetto al reato antecedente: una mera distrazione d’azienda, non seguita da alcuna ulteriore e diversa attività, non potrà prospettarsi come ipotesi di autoriciclaggio. Diversamente, la gestione dell’azienda medesima – successiva alla distrazione, s’intende – è idonea ad essere sussunta nell’alveo punitivo dell’art. 648 ter c.p., poiché in tal modo l’autore del reato di bancarotta reimmette il provento delittuoso nel circuito economico, alterando il corretto funzionamento del mercato. Accade proprio questo nella vicenda in esame, in quanto la società dichiarata fallita aveva distratto l’intero complesso aziendale, trasferendolo ad una società “satellite”: questa aveva proseguito l’attività di impresa in continuità con la prima, riuscendo addirittura a far “lievitare” notevolmente il valore dell’azienda medesima (da due a circa otto milioni di euro).

Due precisazioni – a questo punto – si ritengono doverose: in primis, il Giudice di legittimità considera l’azienda un bene con caratteristiche “dinamiche”, essendo idonea a permettere il reimpiego dell’utilità illecita conseguita in altre attività economiche o finanziarie.

In secundis e per concludere, ritenere punibile come autoriciclaggio il mero trasferimento di beni distratti dall’impresa fallita, finirebbe per sanzionare penalmente due volte la stessa condotta: dunque, si prospetterebbe una “ingiustificata sovrapposizione punitiva tra le due norme incriminatrici”, comportando un’intollerabile violazione del ne bis in idem.

La III sez. pen. della Corte di Cassazione, con la recente pronuncia n. 25656 del 2022, ha incrementato il dibattito che si è sviluppato intorno all’applicabilità dell’art. 13 bis, comma 2, d.lgs n. 74 del 2000, il quale impone la previa ed integrale estinzione del debito tributario, così da poter accedere al patteggiamento.

Nel caso di specie, il Supremo Collegio accoglieva il ricorso presentato dalla Procura Generale di Perugia, disponendo l’annullamento senza rinvio di una sentenza di patteggiamento emessa nei confronti di un imprenditore, imputato per i delitti di cui agli artt. 5,8 e 10 del Decreto in parola.

La Procura perugina, infatti, lamentava l’illegittimità dell’accordo raggiunto dalle parti processuali, evidenziando la mancata soddisfazione delle pretese erariali, rectius, l’inosservanza delle condizioni di ammissibilità al rito premiale previste dall’art. 13 bis.

Scavalcando un orientamento piuttosto consolidato, gli Ermellini hanno concluso che “la preclusione al patteggiamento, posta dall’art. 13 bis, comma 2, opera anche con riferimento al delitto di cui all’art. 8”.

Si ritiene utile, a questo punto, formulare almeno tre osservazioni. In primis, è apprezzabile che il giudice di legittimità abbia voluto evidenziare, con precisione non comune, la ragione per la quale l’emissione di fatture per operazioni inesistenti – da sempre ritenuto un reato con minor disvalore rispetto ai c.d. “illeciti dichiarativi” – sia sussumibile nel rigoroso campo applicativo dell’art. 13 bis, comma 2. Il motivo risiede nella rintracciabilità di un indebito vantaggio fiscale, anche nel caso di un’evasione fiscale non diretta, come quella realizzabile ex artt. 8 e 10, d.lgs 74/2000.

In secundis, è doveroso tener presenti i molteplici problemi di incostituzionalità ed applicativi che l’art. 13 bis, comma 2, ha disseminato sin dalla sua entrata in vigore. Da un lato, si è sempre (giustamente) sostenuto che il limite di accesso al patteggiamento avrebbe potuto determinare una rilevante disparità di trattamento tra chi ha la disponibilità economica per procedere al pagamento del debito tributario e chi non è in grado di farlo; sul secondo versante, invece, è emersa la difficoltà di far coesistere siffatta norma con la causa di non punibilità prevista dall’art. 13, nonché con la struttura della maggior parte degli illeciti fiscali, raggruppati nel decreto medesimo.

Terzo rilievo critico, per concludere: nel reato punito dall’art. 8, subordinare l’accesso al patteggiamento al versamento del debito tributario, significa incentivare tale versamento sia per l’utilizzatore delle fatture asseritamente false, sia per l’emittente delle stesse, con l’irragionevole ed indebito incameramento da parte dell’erario della medesima imposta, per due volte.

Alla luce di ciò, è auspicabile un intervento delle Sezioni Unite volto a scongiurare una conseguenza così “nefasta”, nonché a sbrogliare – definitivamente – una quaestio iuris così intricata.

Nei casi di violenza sessuale di minore gravità, la pena è diminuita. L’art. 609 bis, comma 3, c.p., prevede una circostanza attenuante ad effetto speciale che gli operatori – in base alla posizione processuale che rivestono – trattano con estrema cautela. Tale attenuante è stata spesso attenzionata dalla Cassazione, che le ha costruito attorno un sapiente “reticolato interpretativo”, dettandone le coordinate per una prudente applicazione.

Nulla quaestio – neppure nel caso che si esaminerà – circa il consolidato orientamento secondo cui, per applicare siffatta circostanza è necessario svolgere una “valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali, le caratteristiche psicologiche”.

La III sez. Cass. Pen., con la sent. n. 912 del 2022, ha ribadito questo indirizzo, precisando come sia indispensabile compiere un giudizio sulla base di tutti gli elementi sopra enucleati, in modo da accertare che la libertà sessuale della vittima non sia stata gravemente compromessa. Nel caso di specie, tuttavia, la Corte affrontava un caso “singolare”: un infermiere aveva baciato una paziente – toccandole poi anche il seno – contro la sua volontà, salvo chiederle immediatamente scusa.

Il Supremo Consesso – come i giudici di prime cure – riconosce una nitida violenza sessuale. Nonostante ciò, accogliendo il ricorso della Difesa e dichiarando inammissibile quello della Procura (entrambe le parti si dolevano, ma per motivi differenti), la Cassazione segue il solco interpretativo tracciato dal difensore: mancando la consumazione del rapporto sessuale ed essendosi verificato un unico episodio, deve ritenersi integrata la minore gravità.

Benché la Procura ritenesse “irragionevole” parlare di fatto lieve, la Corte demolisce la tesi accusatoria, stabilendo che la valutazione complessiva del fatto non può riguardare solamente le componenti oggettive del reato, ma si deve estendere anche alle componenti soggettive. Ad adiuvandum, ricorda che l’attenuante prevista dal 609 bis, comma 3, c.p., non soddisfa le esigenze di adeguamento del fatto alla colpevolezza del reo, ma concerne la minore lesività del fatto in concreto, rapportata al bene giuridico tutelato.

In altre parole, se è vero che la circostanza ad effetto speciale non può essere valutata unicamente in base alla tipologia di atti sessuali compiuti, sarebbe d’altro canto ingiusto ignorare la repentinità della condotta tenuta dall’imputato e soprattutto le scuse presentate nell’immediatezza del fatto.

Per concludere, se è vero che l’attenuante in esame deve essere sapientemente calibrata, è altrettanto avvertita l’esigenza di formulare giudizi adeguati. Ad esempio, quello che molti ritenevano un automatismo – l’esclusione della minore gravità qualora sussista l’aggravante ex art. 61, n. 9, c.p. – nella pronuncia in parola è stato categoricamente smentito.

La V sez. pen. della Corte di cassazione, con sentenza n. 12827 del 2022, torna ad occuparsi di una tematica di grande interesse: la configurabilità del reato di atti persecutori nelle condotte del datore di lavoro e le eventuali differenze rispetto al comportamento c.d. “mobbizzante”.

Brevemente i fatti: il presidente di una società, nell’ambito della sua attività di gestione, aveva provocato nei lavoratori un perdurante stato d’ansia e di paura; in particolare, il datore di lavoro aveva ripetutamente minacciato i suoi dipendenti, aveva contestato loro degli addebiti disciplinari pretestuosi, giungendo persino a licenziare illegittimamente uno di essi.
I giudici di merito avevano affermato, senza alcun dubbio, la penale responsabilità dell’imputato per il delitto di atti persecutori, aggravato dall’aver commesso il fatto mediante abuso di autorità. Innegabile, ad avviso di tutti i giudicanti, la sussistenza delle condotte vessatorie e persecutorie.

Avverso la sentenza di secondo grado, la difesa dell’imputato proponeva un interessante ricorso per cassazione, criticando la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione.
La Corte, pur dichiarando infondato il ricorso, sfrutta la preziosa occasione per risolvere alcuni dubbi inerenti alla sussumibilità delle condotte mobbizzanti nel reato di stalking.

Innanzitutto, il Supremo Collegio ribadisce che il mobbing – inteso come condotte preordinate a mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro – può integrare il delitto di atti persecutori, ma ad una condizione: deve produrre nella vittima uno stato di prostrazione psicologica, il quale dovrà manifestarsi con uno degli eventi previsti ex art. 612 bis c.p.

Nulla quaestio, dunque, circa la possibilità di “sovrapporre” le due fattispecie. Tuttavia, è necessario che il giudice accerti due elementi immancabili: la mortificazione e l’isolamento del lavoratore mediante plurimi comportamenti ostili e il vulnus alla libera autodeterminazione della vittima. Il primo elemento, nondimeno, può essere rappresentato da un licenziamento totalmente pretestuoso, come nel caso qui esaminato.

Ad adiuvandum, il Massimo Consesso sottolinea che l’efficienza di una società non può mai essere raggiunta mediante l’umiliazione dei dipendenti, dovendo sempre prevalere la tutela della persona rispetto agli interessi economici.

Per concludere – poiché nell’ordinamento italiano non esiste, al momento, il reato di mobbing – la Corte chiarisce che è innegabile che vi siano alcune similitudini con la fattispecie degli atti persecutori: si pensi, per esempio, alle condotte oppressive reiterate nel tempo.

Non appare necessaria, a parere di chi scrive, la creazione di un’ulteriore fattispecie penale: le caratteristiche del delitto di stalking, infatti, ben consentono di accogliere nel novero delle condotte rilevanti anche i comportamenti tenuti da datori che tendano a svilire il ruolo del lavoratore, procurandogli uno stato di disagio psicofisico.

La V sez. Cass. pen., con la sent. n. 47135 dell’ottobre 2022, ha superato un’impasse di difficile risoluzione, pronunciandosi sulla configurabilità del reato di stalking, qualora le condotte realizzate dal perseguitante non sortiscano effetti “estremi” sulla vita della vittima.

Nel caso di specie, il giudice di legittimità si misurava con una “doppia conforme”: i giudici di merito avevano riconosciuto la responsabilità penale di una donna che – con condotte reiterate – aveva minacciato, molestato e perfino cagionato lesioni personali all’ex marito ed alla sua nuova compagna, non accettando la relazione intercorrente tra i medesimi. Come se non bastasse, l’imputata si era presentata sovente presso l’abitazione dell’ex marito, attuando condotte offensive dinanzi ai figli minori.

Nonostante il reato ex art. 612 bis c.p. appaia – ictu oculi – integrato, il difensore dell’imputata ricorre per cassazione, “aggrappandosi” ad una giurisprudenza ondivaga; sostiene che le condotte tenute dalla sua assistita non abbiano inciso in modo “estremo” sull’esistenza delle persone offese. L’ex marito e la nuova compagna, infatti, non hanno interrotto la loro relazione e non vi sono altre prove concrete circa una significativa alterazione delle loro abitudini di vita.

Mediante un puntuale iter logico-argomentativo, il Supremo Consesso evidenzia come sia irrilevante il fatto che la condotta tenuta dalla donna non abbia provocato la rottura del legame tra l’ex marito e la nuova partner.

Di conseguenza, non essendo possibile ridimensionare la condotta tenuta dall’imputata, ne viene confermata la condanna a dieci mesi di reclusione, ai sensi dell’art. 612 bis c.p., in forza di almeno due ragioni:

  • è innegabile lo stato di ansia e paura in cui si sono venute a trovare le persone offese, alla luce del ripetersi ossessivo delle molestie, sfociate persino in “incursioni” destabilizzanti in casa della vittima;
  • è evidente l’humus di cui si è nutrita la condotta persecutoria della donna, vale a dire la mancata accettazione della nuova relazione intrapresa dall’ex marito e la forte conflittualità circa la gestione della vita dei loro figli minori.

Per concludere: nulla quaestio nel ritenere che “l’evento tipico del cambiamento delle abitudini di vita della persona offesa possa essere anche transitorio, ma non occasionale”, come era stato già ripetutamente chiarito dal Supremo collegio. Tale circostanza, nondimeno, sussiste anche nel caso preso in esame: si è indubbiamente verificata una sensibile e qualitativamente apprezzabile costrizione delle abitudini quotidiane di vita delle vittime. Sebbene si sia trattato di cambiamenti transitori – i quali non si sono imposti come irreversibili od “estremi” – tuttavia non si può ritenere che siano stati meramente occasionali, in quanto hanno comunque comportato un significativo e duraturo mutamento nell’esistenza delle due persone offese.

 

Con la recente sentenza n. 38336 del 2022, la VI sez. pen. della Corte di cassazione si è districata in un delicato ambito – quello dei maltrattamenti in famiglia – fornendo delle coordinate fondamentali per tutti gli operatori giuridici.

Si ricostruiscano i fatti: tra il gennaio e l’agosto 2020, durante un breve periodo (non continuato) di convivenza, un uomo aveva maltrattato – fisicamente e verbalmente – la propria compagna. I giudici, sia in primo che in secondo grado, avevano condannato l’imputato per il reato di maltrattamenti in famiglia, poiché le condotte del medesimo erano apparse sussumibili nell’alveo dell’art. 572 c.p.

Tuttavia, mediante un lungimirante ricorso per cassazione, il difensore dell’imputato si doleva della decisione di merito, criticandone un punto in particolare: non era stata dimostrata l’esistenza del requisito della convivenza, ovvero di un rapporto caratterizzato da una coabitazione non occasionale.

Il Supremo Consesso, mediante un sopraffino ragionamento, si preoccupa innanzitutto di fare il punto circa la configurabilità del reato in parola. A differenza di numerose pronunce di legittimità che si erano “accontentate” – ai fini del reato ex art. 572 c.p. – di accertare l’esistenza di una relazione sentimentale nella quale i partner hanno instaurato un vincolo di solidarietà personale, questa volta la Cassazione “pretende” la sussistenza di una “coabitazione della coppia, caratterizzata da una duratura consuetudine di vita comune nello stesso luogo, tale da parificarla ad una relazione familiare”.

Attraverso un accurato richiamo ad una consolidata giurisprudenza della Consulta, il giudice di legittimità ammonisce come sia sempre indispensabile rispettare alla lettera la norma incriminatrice e non modificarne la portata, evitando di applicare soluzioni che rispondano ad una logica di interpretazione analogica in malam partem (vietata in materia penale). Tale divieto, infatti, impone di chiarire se il rapporto affettivo dipanatosi nell’arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative nell’abitazione dell’altro partner, possa considerarsi alla stregua di un’ipotesi di convivenza.

Seguendo questa intricata lectio iuris, la motivazione del giudice di merito appare incompleta ed incongrua, essendosi questi limitato ad affermare la sussistenza del requisito della convivenza, pur senza la prova di “un progetto di vita comune, ovvero di un’organizzazione stabile della quotidianità”.

Per concludere: alla luce di un’esegesi rispettosa del principio di legalità, si può parlare di “convivenza” solamente laddove risulti acclarata l’esistenza di una relazione affettiva qualificata dalla continuità e connotata da elementi oggettivi di stabilità. Il concetto di convivenza, in buona sostanza, deve essere espressione di una relazione personale caratterizzata da una reale condivisione e comunanza – materiale e spirituale – di vita.

La I sez. pen. della Corte di cassazione, con la recente sent. n. 34536 del 2022, è tornata ad occuparsi di una questione dibattuta: la configurabilità dell’aggravante della premeditazione nell’omicidio, ex art. 577, n. 3 c.p.

Brevemente i fatti: un uomo attira nei pressi di un bar la sua ex convivente ed il suo nuovo compagno, per poi uccidere quest’ultimo con numerosi colpi di pistola. All’esito del giudizio abbreviato, l’imputato viene condannato alla pena di trent’anni di reclusione, poiché ritenuto responsabile di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione.

La Corte d’Assise d’appello avvalora la ricostruzione del Giudice di prime curae, confermando la sussistenza della premeditazione: infatti, i testimoni escussi dalla P.G. sostenevano che l’imputato aveva deciso da tempo di uccidere il nuovo compagno dell’ex fidanzata, presentandosi all’incontro “chiarificatore” con una pistola carica.

La difesa dell’imputato, mediante un pregevole ricorso, impugna diversi punti della sentenza di merito, lamentando il travisamento della prova in relazione alla mancata esclusione dell’aggravante. Secondo la prospettazione difensiva, infatti, il Giudice di secondo grado avrebbe confuso gli elementi della premeditazione con quelli “sintomatici” della preordinazione. Il Supremo Collegio, con apprezzabili argomentazioni, condivide tali doglianze e sfrutta l’occasione per offrire importanti linee guida sul tema.

Innanzitutto, la Corte ribadisce che gli elementi costitutivi dell’aggravante in esame sono due: “cronologico” e “ideologico”. Il primo consiste nell’apprezzabile intervallo temporale intercorrente tra l’insorgenza dell’animus necandi e l’attuazione del medesimo proposito; il secondo si sostanzia nella ferma convinzione di uccidere, perdurante nella psiche dell’agente per tutto l’iter criminis.

Nel caso di specie, la Cassazione ritiene che il Giudice d’appello non abbia adeguatamente accertato la “sintomaticità” dell’aggravante, soprattutto con riguardo all’elemento cronologico: l’imputato conosceva da un giorno l’identità del “rivale”, un arco temporale troppo breve per qualsivoglia tipo di valutazione.

Sulla base di ciò, la sussistenza della premeditazione si sarebbe dovuta desumere dalla presenza di condotte preparatorie idonee a far emergere una preordinata adesione al piano criminoso. In altre parole, l’esiguità dell’arco temporale doveva essere compensata dalla presenza di altri elementi sintomatici, non emersi tuttavia nel giudizio di merito: portare l’arma con sé non può essere ritenuto elemento sintomatico della premeditazione, potendo indicare al più una mera preordinazione.

La Corte, dunque, accoglie il ricorso difensivo, non prima di aver ricordato il discrimen tra le due fattispecie: la premeditazione indica la lunga riflessione precedente al reato, la preordinazione qualifica la mera preparazione dei mezzi esecutivi per eseguire un delitto. Solo la prima circostanza giustifica, evidentemente, un più grave trattamento sanzionatorio.

La sent. n. 31478 del 2022 è stata, per la IV sez. pen. della Cassazione, una proficua opportunità per far luce su una tematica complessa: gli infortuni sul lavoro che coinvolgono soggetti terzi rispetto al c.d. “perimetro aziendale”. Più precisamente, il quesito che il Supremo collegio ha cercato di dipanare è il seguente: l’infortunio che si verifica sul lavoro, occorso ad un soggetto “estraneo” – cioè non legato da alcun rapporto contrattuale al datore – può integrare la circostanza aggravante del fatto commesso con violazione delle norme antinfortunistiche?

Il Giudice di legittimità ha dato risposta affermativa, tracciando un solco argomentativo che qui vale la pena ripercorrere e prendendo le mosse dal seguente caso: un pedone era stato travolto da un autocompattatore in manovra e i giudici di merito avevano ritenuto sussistente la responsabilità penale in capo al titolare della società che gestiva il servizio, ai sensi dell’art. 589, comma 2, c.p. La Cassazione, al contrario, escludeva che l’omicidio colposo aggravato potesse ravvisarsi a carico del datore di lavoro, trattandosi di un mero incidente stradale.

L’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità – nella sentenza in parola – non è stato disatteso, bensì riaffermato con le dovute cautele. Nulla quaestio sul fatto che le norme antinfortunistiche siano dettate a tutela non solo dei lavoratori, ma anche dei terzi che si trovino nell’ambiente di lavoro, a prescindere dall’esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare. Dunque, qualora si verifichino reati di lesioni o di omicidio colposi, è ravvisabile la colpa del datore di lavoro per violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni.

Ad adiuvandum, si considerino quelli che sono gli ulteriori caratteri – almeno tre – che devono obbligatoriamente sussistere per poter ritenere integrata la responsabilità penale del datore. Innanzitutto, è necessario che vi sia un legame causale tra la violazione delle norme antinfortunistiche e l’evento dannoso. Soltanto la presenza dell’extraneus connotata da anormalità, atipicità ed eccezionalità, sarebbe idonea ad interrompere tale nesso eziologico.

In secundis, la norma antinfortunistica violata deve mirare a prevenire l’incidente verificatosi.

Terzo elemento – introdotto dalla pronuncia in esame – l’aggravante è ravvisabile solo se la regola prevenzionistica sia dettata a tutela di qualsiasi soggetto che entri in contatto con la fonte di pericolo sulla quale il titolare ha poteri di gestione. Dunque, se la regola prevenzionistica è posta a beneficio precipuo del lavoratore, la responsabilità penale del datore deve essere esclusa.

La sentenza esaminata esprime un’innegabile “indole garantista”. Tuttavia, non potendo sottovalutare l’elevato rango dei beni protetti dalla normativa prevenzionistica, è auspicabile un’interpretazione che salvaguardi l’incolumità di qualsiasi consociato esposto al rischio lavorativo.

La Corte di cassazione, con la sentenza n. 30052 del 2022, è tornata ad occuparsi di un tema particolarmente intricato – quello dei reati stradali – focalizzandosi su una questione troppo spesso trascurata dagli operatori del diritto, giudici in primis: bilanciare correttamente il principio di affidamento con l’opposto principio secondo il quale l’automobilista è responsabile anche della condotta imprudente altrui.

Breve esposizione dei fatti: un soggetto veniva condannato per violazione colposa dell’art. 141 Cds (“obblighi del conducente”) alla pena di quattro mesi di reclusione, per il reato di lesioni stradali. Anche la Corte d’Appello di Palermo confermava la suddetta decisione, avverso la quale la difesa dell’imputato decideva di ricorrere per Cassazione. Il difensore – tra le varie doglianze – faceva valere il vizio di motivazione, con particolare riferimento alla condotta della persona offesa.

Più precisamente, secondo le argomentazioni del ricorrente, la Corte territoriale sarebbe incorsa nel travisamento della prova: avrebbe, cioè, omesso di valutare la condotta imprudente ed imprevedibile del pedone distratto dallo smartphone durante l’attraversamento pedonale.

Il Supremo collegio, con un ragionamento efficace e ben articolato, non si limita a pronunciarsi sulle doglianze proposte, volendo altresì rimarcare le “linee guida” in tema di reati stradali, con particolare riguardo al c.d. principio dell’affidamento.

In primis, la Quarta sezione, in risposta alle contestazioni difensive, precisa che nel caso di specie “il comportamento imprudente del pedone non è idoneo ad assumere rilevanza come causa interruttiva del nesso causale rispetto alla condotta del conducente”. Infatti, una siffatta ricostruzione sarebbe stata ammissibile soltanto qualora l’automobilista avesse tenuto una condotta massimamente diligente, dunque ineccepibile.

In secundis, il Giudice di legittimità chiarisce ed esemplifica un aspetto controverso: l’utente della strada è responsabile anche della condotta imprudente altrui, nulla quaestio, ma è altrettanto vero che tale condotta deve necessariamente rientrare nello spettro di prevedibilità. Se il comportamento del pedone non dovesse essere prevedibile, allora si potrà applicare il principio di affidamento, con tutti i benefici che ne derivano per l’imputato in sede processuale.

Per concludere, la Corte non respinge totalmente l’esegesi interpretativa proposta dalla difesa, né rinuncia a riaffermare la necessità del corretto bilanciamento tra principi di diritto. Nel caso di specie, tuttavia, ritiene che i giudici di merito abbiano fatto buon governo dei principi in materia di reati stradali: il comportamento del pedone, sicuramente imprudente, era tuttavia prevedibile e pertanto non idoneo ad interrompere il nesso causale tra la condotta negligente dell’automobilista e l’evento lesivo.

La IV sez. pen. della Corte di Cassazione, con sent. n. 9006 del 2022, torna ad affrontare un tema dibattuto, discostandosi coscientemente da una giurisprudenza piuttosto consolidata: gli effetti che la cancellazione dal registro delle imprese produce sulla responsabilità amministrativa da reato prevista dal d.lgs. 231/2001.

I fatti: una S.p.a. veniva riconosciuta responsabile, sia in primo grado che in appello, dell’illecito amministrativo ex art. 25-septies d.lgs. 231/2001, avendo cagionato delle lesioni colpose, in violazione della disciplina antinfortunistica.

La difesa della società ricorreva per Cassazione facendo valere la doglianza inerente all’omessa declaratoria di estinzione dell’illecito, derivante dalla documentata cancellazione della stessa dal registro delle imprese. A sostegno di ciò, il ricorrente richiamava un autorevole precedente che assimilava – quanto agli effetti – la cancellazione dal registro delle imprese alla morte della persona fisica, ex art. 35 d.lgs. 231/2001.

Il Supremo Collegio, pur rigettando il ricorso, esamina il controverso tema e stabilisce che l’estinzione – seppur fisiologica – dell’ente non è assimilabile alla morte dell’imputato, non potendosi, di conseguenza, applicare alla società le disposizioni relative alla persona fisica.

Ad avviso della IV sez. pen., infatti, la precedente giurisprudenza è indubbiamente “suggestiva”, ma totalmente infondata, oltre che idonea ad incoraggiare delle inaccettabili “cancellazioni di comodo”.

Ad adiuvandum, la Corte ricorda come le cause estintive dei reati siano notoriamente un numerus clausus non estendibile; in forza di ciò, sarebbe contra ius considerare come causa estintiva dell’illecito un’ipotesi non prevista come tale.

Inoltre, nel c.d. “sistema 231” è possibile evidenziare un parallelismo – non una differenza, come precedentemente sostenuto – tra cancellazione dal registro e dichiarazione di fallimento. Nulla questio sul fatto che la seconda non determini un effetto estintivo dell’illecito; sarebbe irragionevole, dunque, ricollegare siffatto effetto alla prima ipotesi, poiché entrambe le fattispecie determinano eventi irreversibili e non appaiono meritevoli di diverso trattamento.

In altre parole, la Corte ritiene che la cancellazione di una società dal registro delle imprese non ponga alcun problema circa l’accertamento della responsabilità da reato dell’ente.

In conclusione, la sentenza in esame solleva almeno due interrogativi critici: se la cancellazione interviene prima della sentenza di accertamento della responsabilità, come si può sostenere che questa continui a “sopravvivere”?

Ed ancora, ritenere i soci obbligati al pagamento della somma irrogata a titolo di sanzione pecuniaria – in un caso come quello in esame – non è in contrasto con il principio della responsabilità personale?

Soltanto un intervento delle Sezioni Unite – auspicabile, stante il persistente vuoto legislativo – potrà dirimere l’acclarato contrasto e placare i numerosi dubbi.