La VI sez. pen. della Corte di Cass., con sent. n. 28952 del 2022, decide di esaminare una controversa fattispecie nell’ambito dei c.d. white collars crimes: può un medico chirurgo, alle dipendenze del Servizio Sanitario Nazionale, commettere il reato di concussione? E quali sono le condizioni per configurare, quantomeno in astratto, il reato previsto dall’art. 317 c.p.?

Brevemente i fatti: un medico chirurgo, in servizio presso una clinica convenzionata con il S.S.N., costringe – nella ricostruzione operata dai giudici di merito – una paziente a consegnargli una cospicua somma di denaro, per il compimento di un intervento chirurgico presso detta struttura.

Avverso la sentenza della Corte d’appello, la difesa dell’imputato propone ricorso per cassazione, dolendosi di una serie di “vizi” meritevoli di attenzione.

In primis, viene messa in discussione la sussistenza – nel caso concreto – della qualifica di pubblico ufficiale: l’attività svolta, dunque, dovrebbe essere inquadrata in un rapporto privatistico. In secundis, e soprattutto, la difesa lamenta l’errata interpretazione della norma penale con riguardo all’elemento oggettivo del reato: la paziente avrebbe consegnato il denaro a titolo di regalia, risultando assente la prova della costrizione.

Mediante pregevoli argomentazioni, il Supremo Collegio analizza gli aspetti nevralgici della quaestio iuris, cercando altresì di configurare precise linee guida in tema di concussione.

Preliminarmente, per quanto concerne la qualifica soggettiva nel reato, la Corte analizza la posizione ricoperta dal ricorrente: nelle cliniche convenzionate con il S.S.N., l’attività medica è effettuata “in funzione di supporto alla struttura pubblica”. In altre parole, in forza del rapporto concessorio sussistente tra la struttura privata e l’ente pubblico, la prima viene pienamente inserita nell’organizzazione pubblica. Nulla quaestio, dunque, circa la qualifica di pubblico ufficiale rivestita dal medico.

Con riferimento all’elemento oggettivo del reato – soffermandosi, in particolare, sul concetto di costrizione – la Cassazione ritiene che il motivo di ricorso sia fondato.

La condotta costrittiva, infatti, è caratterizzata da una precisa modalità realizzativa: il pubblico ufficiale abusa della propria qualità personale. Più nello specifico, l’intraneus approfitta di un potere che gli è stato legittimamente affidato per costringere il soggetto extraneus ad effettuare una dazione non dovuta.

Per queste ragioni, poiché l’abuso della qualifica di pubblico ufficiale costituisce elemento essenziale della condotta costrittiva – non già un suo presupposto – rileverà solamente qualora si obblighi il soggetto passivo a tenere un dato comportamento che, diversamente, non avrebbe tenuto.

In conclusione, poiché nel caso in esame la paziente avrebbe potuto effettuare l’intervento presso qualunque struttura ospedaliera, la condotta del medico non può ritenersi in alcun modo permeata dal c.d. “abuso costrittivo”.

La V sez. pen. della Corte di Cassazione, con la sent. n. 37101 del giugno 2022, è tornata ad occuparsi di un tema storicamente ostico del diritto penale d’impresa: il concorso dell’extraneus nel reato di bancarotta fraudolenta. La pronuncia in questione non ha eccessivamente sorpreso gli addetti ai lavori, poiché tratteggia e ribadisce i “pilastri” della giurisprudenza di legittimità circa il delicato tema in parola.

Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Milano aveva ritenuto sussistente la responsabilità penale del legale di una società fallita, poiché aveva reso consigli in merito ad un’operazione di aumento fittizio del capitale sociale. I giudici di merito, erroneamente, avevano ritenuto il legale responsabile in qualità di extraneus, poiché i suoi consigli avevano di fatto aggravato il dissesto societario.

Approfittando del passo falso compiuto dal giudice di merito, il Supremo Consesso ha colto l’occasione per ribadire che “nel delitto di bancarotta fraudolenta, il parere reso dal legale della società in seguito fallita, costituisce contributo causalmente rilevante rispetto alla condotta tipica di bancarotta, solo nel caso in cui sia risultato decisivo per l’assunzione della condotta da parte dell’intraneus”. Nel caso di specie, era evidente come l’amministratore della società avrebbe comunque assunto talune decisioni, a prescindere dall’apporto dell’avvocato “consigliere”. A riprova di quanto detto, già i giudici milanesi avevano parlato di “consigli dalla incerta valenza causale”.

La V sez., nell’esaminare la vexata quaestio, ha ribadito alcuni “criteri guida” che devono essere scrupolosamente applicati. Innanzitutto, l’extraneus non è l’amministratore di fatto della società, quindi è necessario che il suo comportamento denoti un’effettiva concretezza, così da assumere una rilevanza causale rispetto alla condotta posta in essere dall’imprenditore fallito. In secundis, per il solo fatto di elargire pareri legali, l’avvocato di una società non può essere considerato penalmente responsabile, altrimenti si finirebbe per affermare una responsabilità non già per la condotta, bensì per la posizione ricoperta. Infine – autentica “red flag” da non dimenticare – è necessario che l’extraneus apporti un concreto dinamico contributo concorsuale nel reato posto in essere dall’amministratore della società: tale “dinamicità” si può rinvenire nel soggetto che, consapevole dei propositi distrattivi dell’imprenditore, fornisca a questi consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori, o lo assista nella conclusione dei relativi negozi, ovvero svolga un’attività diretta a garantirne l’impunità.

Ne consegue, dunque, che in mancanza di una sufficiente specificazione del concreto dinamico contributo apportato dall’extraneus – nei termini appena enucleati – la posizione soggettiva del legale non può in alcun modo travalicare il perimetro della mera connivenza non punibile.

La colpa medica, da un punto di vista squisitamente penale, rappresenta uno degli argomenti più dibattuti in giurisprudenza e in dottrina, in ragione delle numerose problematiche che può celare.

La IV sez. Cass. Pen., con la sentenza n. 5117 del 2022, ha riaffermato alcuni significativi concetti proprio in ambito di responsabilità medica, occupandosi però di un caso alquanto singolare: un medico dispensava spontaneamente consigli – non conformi alla medicina tradizionale – ad un paziente affetto da una grave patologia tumorale, influenzandone le scelte terapeutiche. Nello specifico, suggeriva alla vittima di curarsi mediante trattamenti omeopatici.

La vicenda è piuttosto intricata per il motivo che segue: se si fosse trattato del medico che aveva in cura il paziente, nulla quaestio in ordine ad una sua piena ed evidente responsabilità penale. Tuttavia, trattandosi di un professionista che elargiva suggerimenti in modo spontaneo, i giudici torinesi non avevano vita facile nel sussumere la sua condotta nell’alveo dell’omicidio colposo.

Ciononostante, dopo essere stato condannato nei gradi di merito, l’imputato ricorre per cassazione facendo valere un vizio di motivazione: non può essere accertata alcuna responsabilità penale, poiché non sussisteva nessuna “relazione terapeutica” tra il medico e il paziente deceduto.

Il Supremo Collegio, con una pronuncia degna di nota, conferma la condanna del sanitario, il quale “pur non essendo formalmente medico curante della persona offesa, ha contribuito a definire un percorso terapeutico contrario a quello suggerito dalla medicina tradizionale”. Dunque, risponde di omicidio colposo – in cooperazione con il professionista che aveva in carico il paziente – poiché risulta provato che il ricorso alla medicina tradizionale, con altissima probabilità logica, avrebbe aumentato la prognosi di sopravvivenza della vittima.

In altri termini, per accertare la responsabilità del medico, non è necessario che questi rivesta una specifica posizione di garanzia, né che lo stesso violi una determinata regola cautelare. Infatti, affinché sussista la cooperazione ex art. 113 c.p., è sufficiente un “nesso di indole psicologica” che leghi la condotta dell’agente con quella degli altri soggetti cooperatori nel delitto colposo. Il nesso in parola – già di per sé idoneo a giustificare il riconoscimento di precisi doveri cautelari – si aggiunge a quello che il giudice di legittimità definisce “obbligo connaturato” all’attività medica: attivarsi a tutela della salute del paziente.

Il Giudice di legittimità conferma la condanna al medico, in ragione della sua grave imprudenza ed imperizia professionale e chiude la sentenza in esame con un “monito” per gli addetti ai lavori: la responsabilità per colpa può essere affermata solo dopo aver accertato che il comportamento alternativo lecito, richiesto dall’ordinamento, avrebbe evitato l’evento lesivo.

La III sez. Cass Pen., con la sentenza n. 156 del 2022, è tornata ad occuparsi di una materia diffusamente trattata dalla giurisprudenza, ma tutt’altro che pacifica: la configurabilità del concorso del commercialista nella realizzazione dei reati tributari.

Brevemente i fatti: il consulente di due società operanti nel settore dei trasporti, è imputato – in qualità di concorrente – per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture e altri documenti per operazioni inesistenti, ex art 2 d.lgs. n. 74/2000. La Corte d’appello di Bologna aveva confermato la sentenza di condanna pronunciata dal Giudice di prime cure, con la quale il commercialista era stato condannato alla pena di due anni e sei mesi di reclusione. La difesa dell’imputato ricorreva per Cassazione e lamentava un macroscopico vizio di motivazione nella decisione del Giudice di secondo grado.

La delicata questione giuridica sottesa alla pronuncia in esame, dunque, riguarda la possibile sussistenza del concorso del commercialista nel reato ex art. 2 d.lgs. n. 74/2000, nonché l’individuazione dei principali elementi costitutivi del medesimo.

La Corte, attraverso un pregevole percorso argomentativo, si interroga dapprima circa la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato. Nella commissione dell’illecito tributario da parte del commercialista, infatti, è possibile individuare non solo un concorso morale, ma anche materiale. A tal proposito, è sufficiente che il consulente fornisca un apporto concreto, anche non determinante, nella commissione dell’illecito. Nella vicenda esaminata, il Collegio ritiene che le funzioni svolte dall’imputato siano idonee a far emergere un effettivo contributo causale nella realizzazione del reato: quest’ultimo, evidentemente, si sostanzia nella possibilità (per le due società) di utilizzare una documentazione fittizia.

In secundis, con riguardo all’elemento soggettivo, la Cassazione ribadisce che il dolo specifico – necessario per individuare una responsabilità per il reato di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74/2000 – è “sovrapponibile” al dolo eventuale. Per integrare tale elemento psicologico, infatti, è sufficiente che il concorrente accetti il rischio che la propria condotta possa determinare un’evasione delle imposte. Non vi è dubbio, secondo la Corte, che nel caso di specie sia ravvisabile la sussistenza di un dolo (quantomeno) eventuale: l’imputato ha inserito numerose passività fittizie all’interno della dichiarazione dei redditi, accettando il rischio di un’evasione fiscale.

Sulla base delle osservazioni appena riassunte, il ricorso viene rigettato. La pronuncia stabilisce, una volta per tutte, due punti chiave in tema di concorso nei reati tributari:

  • È sufficiente un contributo “agevolatore” da parte del commercialista;
  • Il concorrente deve trovarsi nella condizione di poter conoscere eventuali illeciti fiscali, realizzati dalla società per cui presta opera di consulenza.

“In tema di bancarotta da dissesto conseguente ad operazioni dolose, se una condotta dell’amministratore che aggravi un dissesto societario già esistente, può dirsi penalmente rilevante, al contempo occorre verificarne la portata causale, dovendosi indagare in concreto la sussistenza del nesso eziologico”.

La massima enunciata racchiude il nucleo della sent. n. 47376 della V sez. Cass. Pen., con la quale il Supremo Collegio è tornato a confrontarsi – date le innumerevoli problematicità – con l’art. 223 l. fall., specie riferendosi al fallimento di una società cagionato da operazioni dolose (co. 2, num. 2).

Brevemente i fatti: in sede di merito, veniva dichiarata la responsabilità penale dell’amministratore di una fallita S.p.a. per il reato di bancarotta societaria per effetto di operazioni dolose – consistite nel ripetuto mancato pagamento di imposte e contributi previdenziali – compiute ai sensi dell’art. 223, co.2, num. 2 l. fall.

In sede di ricorso per cassazione, la difesa evidenziava come l’imputato fosse stato nominato amministratore di diritto, quando ormai la società era inattiva; pertanto, il fallimento si sarebbe comunque verificato, anche se fossero stati adempiuti gli obblighi tributari.

Il Giudice di legittimità – accogliendo le doglianze difensive – traccia un’interpretazione ragguardevole, offrendo altresì alcuni valevoli spunti circa l’intricata quaestio iuris.

Innanzitutto, la norma sulla “bancarotta da dissesto” deve essere utilizzata per punire la condotta consistente nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, all’esito di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società. Nulla quaestio sul punto, così come non vi è dubbio nel ritenere che le operazioni dolose richiamate dall’art. 223, comma 2, n. 2 l. fall., possano consistere nel compimento di qualunque atto intrinsecamente pericoloso per la “salute economica” dell’impresa.

In secundis, la Corte ribadisce che il nesso di causalità tra l’operazione dolosa e il fallimento non è interrotto da una preesistente causa (in sé) sufficiente a cagionare il dissesto, dovendosi applicare l’art. 41 c.p. (concorso causale).

Per queste ragioni, ai fini del reato di bancarotta in esame, il nesso di causalità fra l’operazione dolosa e il fallimento della società non è escluso, se la medesima operazione ha cagionato anche solo l’aggravamento del dissesto già in atto (che rileva penalmente). Tuttavia – e qui sta il punto – occorre verificare l’esistenza e la portata di questo aggravamento da un punto di vista causale, oltre che l’incidenza rispetto al complessivo dissesto.

Nei reati di bancarotta commessi dagli amministratori esecutivi, concorre – per condotta omissiva – anche l’amministratore privo di deleghe? E quali sono gli elementi costitutivi di tale complessa fattispecie?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 33582 del 2022, ha affrontato la quaestio iuris sopra enunciata, fornendo spunti significativi in merito alla risoluzione di un intricato problema.

Brevemente i fatti: la Corte d’Appello di Bologna aveva affermato la penale responsabilità dell’amministratore – seppur privo di deleghe – di un consorzio, per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale. La difesa dell’imputato presentava un pregevole ricorso avverso la suddetta pronuncia di merito, evidenziando l’assenza di motivazione circa la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta (omissiva) e gli eventi contestati; il Giudice d’appello, peraltro, non aveva neppure esaminato il “profilo volitivo” del dolo del ricorrente.

Le doglianze difensive, così riassunte, vengono ritenute fondate dal Supremo Collegio, il quale annulla con rinvio la sentenza impugnata. Trattandosi di una tematica significativa, anche per la sua frequente incidenza statistica, il Giudice di legittimità ne ribadisce i principi fondanti.

Innanzitutto, in tema di reati societari, il d.lgs. n. 6 del 2003 ha ridotto gli oneri e le responsabilità degli amministratori privi di deleghe: questi, infatti, risultano penalmente responsabili esclusivamente per la commissione di un evento che, pur potendo, non hanno impedito. Inoltre, sono responsabili verso la società, ma nei limiti delle attribuzioni loro assegnate dalla legge: non sono più sottoposti ad un generale “obbligo di vigilanza”, ma rispondono solo quando non abbiano impedito le condotte dannose degli amministratori con delega (pur essendone a conoscenza).

In buona sostanza, la Terza Sezione ritiene che “il concorso omissivo dell’amministratore non esecutivo nei reati di bancarotta è configurabile per violazione del dovere di agire informato e soltanto qualora l’omesso intervento abbia avuto effettiva incidenza causale nella commissione del reato da parte degli amministratori con delega”.

La Corte, in altre parole, sottolinea che la responsabilità del c.d. “consigliere non operativo” non può fondarsi soltanto su una supposta posizione di garanzia – quasi si trattasse di una responsabilità di mera posizione – e discendere, tout court, dal mancato esercizio dei doveri di intervento. Esistono, al contrario, dei puntuali “elementi sintomatici” idonei a dimostrare un’omissione esorbitante dalla dimensione meramente colposa.

Per concludere, la conoscenza di una pluralità di “elementi indizianti” la sussistenza di un reato, presuppone che l’amministratore non esecutivo sia rimasto inerte, accettando il rischio dell’evento: da ciò deriva la sua responsabilità penale – in concorso con gli autori materiali – a titolo di dolo eventuale.

 

La I sez. pen. della Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 19887 del 2022, si è cimentata in un compito intricato: fare chiarezza in merito ad un tema piuttosto nuovo del diritto penale d’impresa, che sta creando non pochi “grattacapi” agli addetti ai lavori.

Ci si riferisce alla c.d. bancarotta “riparata”, istituto – di matrice giurisprudenziale – che si configura “quando la sottrazione dei beni venga annullata da un’attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, determinando l’insussistenza dell’elemento materiale del reato e così annullando il pregiudizio per i creditori”.

La Suprema Corte, nel caso qui in esame, ha confermato la condanna di un manager per il reato di bancarotta fraudolenta, in quanto aveva utilizzato la carta di credito aziendale per scopi estranei all’attività d’impresa. Più nel dettaglio, dopo aver posto in essere gli atti distrattivi, egli aveva siglato un accordo transattivo con la Società, rinunciando ad una serie di emolumenti di sua spettanza – tra i quali la buonuscita – al fine di “porre rimedio” al dissesto che aveva cagionato.

Una siffatta condotta, secondo il Supremo Consesso, non è mai da considerarsi sussumibile nell’alveo della “bancarotta riparata”, poiché i giudici di legittimità, nel caso concreto, non rinvenivano nessun dato certo che facesse propendere per un’avvenuta reintegrazione effettiva del patrimonio sociale, prima della dichiarazione di fallimento.

L’occasione appare preziosa, dunque, per rispolverare i tre requisiti fondamentali che configurano la bancarotta “riparata”, la quale – lo si ricorda ad abundantiam – esclude la punibilità dell’autore degli atti distrattivi. Innanzitutto, l’elemento “cronologico”: è necessario che la reintegrazione patrimoniale avvenga prima della dichiarazione di fallimento. In secundis, un elemento che si potrebbe definire “qualitativo”: la reintegrazione del patrimonio deve configurarsi come effettiva ed integrale. Terzo carattere, l’imprescindibile corrispondenza tra atti reintegrativi (o restitutori) ed atti distrattivi: la sottolineatura non è superflua se si considera che i reati di cui si discute hanno sovente ad oggetto il denaro, bene fungibile per eccellenza.

Infine, un’ultima riflessione a proposito del discusso inquadramento sistematico della bancarotta “riparata”. Nonostante manchi una sistemazione legislativa dell’istituto, questo si può configurare non già come desistenza volontaria, bensì come ipotesi di recesso attivo (56, co. 2, c.p.): infatti, la riparazione elimina le conseguenze patrimoniali e offensive di una bancarotta già perfezionata sul piano della condotta, ma neutralizzata rispetto all’evento del concretizzarsi del pericolo.

Il c.d. stalking è una fattispecie di reato abituale, la quale richiede per la sua integrazione condotte reiterate, omogenee od eterogenee tra loro, con cui l’autore minaccia o molesta la vittima.
Ai fini della sua integrazione risulta necessario, altresì, che le suddette condotte siano idonee a produrre alternativamente uno degli eventi specificamente individuati dalla norma: cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero, ancora, costringere la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita.
Nel caso di specie la Cassazione ha ritenuto integrato il reato di stalking stante le continue molestie operate nei confronti della persona offesa, anche mediante messaggi e post diffusi sui social network, oltre al numero infinito di espressioni aspramente offensive e minacciose adoperate in danno della medesima.
La Corte ha precisato, poi, che per ritenere integrato l’evento del perdurante stato di ansia e di paura non risulta necessario l’accertamento di un vero e proprio stato patologico e di una perizia medica.
Infine, ha ritenuto integrato il reato nonostante che all’interno del periodo di vessazione vi fossero stati momenti di avvicinamento della vittima all’imputato.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE

Sentenza 6 novembre 2019, n. 45141
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MORELLI Francesca – Presidente –
Dott. PEZZULLO Rosa – rel. Consigliere –
Dott. SCARLINI Enrico V. S. – Consigliere –
Dott. ROMANO Michele – Consigliere –
Dott. BORRELLI Paola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
D.P., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 30/11/2015 della CORTE APPELLO di ROMA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. PEZZULLO ROSA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. BIRRITTERI LUIGI, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità;
udito il difensore della parte civile si associa alle conclusioni del Procuratore Generale e si riporta alle proprie conclusioni scritte che deposita unitamente alla nota spese.

Svolgimento del processo

1.Con sentenza in data 30.11.2015 la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Roma il 5.5.2015 nella parte in cui D.P. veniva condannato alla pena di mesi dieci di reclusione per i reati di cui all’art. 612 bis c.p., comma 1, per avere con condotte reiterate, offeso, molestato e minacciato P.B., nonchè i suoi familiari e persone a lei vicine, e di cui all’art. 595 c.p., art. 61 c.p., n. 2 e art. 81 c.p., offendendo la reputazione della predetta attraverso post pubblici, riducendo la provvisionale ad Euro 5.000,00.

2.Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore di fiducia, lamentando con unico motivo la ricorrenza del vizio di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), per inosservanza o erronea applicazione dell’art. 612 bis c.p. con specifico riferimento alla insussistenza degli eventi di danno previsti dalla norma e per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in punto di ricorrenza dei medesimi eventi; invero, la sentenza impugnata risulta viziata nella parte in cui, con motivazione carente, ha concluso per la sussistenza del grave e perdurante stato d’ansia e del cambiamento delle abitudini di vita della p.o., P.B., senza considerare ciò che è emerso dall’istruttoria, ossia la sussistenza di numerosissime conversazioni intrattenute dalla p.o. con l’imputato e solo in una occasione la p.o. ha provveduto ad impedire al D. ogni interferenza con i suoi profili facebook, attraverso la procedura di “banning”; i comportamenti della p.o., ivi compreso quello dell’aver concesso il suo numero telefonico all’imputato, non si presentano consoni ad una p.o., gravemente e reiteratamente minacciata e molestata, anche tenendo conto degli episodi del (OMISSIS), che, correttamente interpretati danno conto del mantenimento di contatti di vario tipo della p.o. con l’imputato.

Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile, siccome manifestamente infondato.
1.Va premesso che le censure sviluppate dal ricorrente – in merito all’insussistenza nella fattispecie degli eventi di danno di cui all’art. 612 bis c.p. – si traducono in prevalenza in censure di fatto inammissibili in sede di legittimità. I motivi di ricorso, infatti, pur essendo formalmente riferiti a vizi riconducibili alle categorie dei vizi di violazione di legge e di motivazione, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), sono in realtà diretti a richiedere a questa Corte un sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dai giudici d’appello (Rv. 203767, 207944, 214794), laddove esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone).

2.Tanto precisato, si osserva che la Corte territoriale con motivazione logica, ampia ed esaustiva, priva di contraddizioni, sulla base della compiuta disamina delle risultanze acquisite ed, in particolare, delle dichiarazioni della parte offesa, P.B., ha correttamente ricondotto i fatti di cui al capo a) contestato all’imputato nella fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p., stante le continue molestie operate nei confronti della stessa, anche mediante messaggi e post diffusi sui social network nei confronti dalla vittima ed il numero infinito di espressioni aspramente offensive e minacciose adoperate in danno della P..

3. Invero, sulla base delle dichiarazioni della p.o., logiche e coerenti, riscontrate da specifici episodi, nonchè dalle dichiarazioni degli amici della stessa vittima, la Corte territoriale ha dato ampiamente conto della sussistenza degli eventi di danno previsti dall’art. 612 bis c.p. e segnatamente dello stato di ansia, tensione e paura, indotto nella vittima da parte dell’imputato, in considerazione peraltro del lungo arco temporale (oltre sette anni) in cui il predetto ha posto in essere il comportamento persecutorio che ha impedito alla vittima di svolgere una vita normale, anche sotto il profilo delle relazioni personali, insinuando la paura che nelle ore di relax all’improvviso si materializzasse l’imputato.
Inoltre, per effetto di tali condotte la P. è stata costretta a modificare le proprie abitudini di vita, ricorrendo spesso all’aiuto di amici per farsi accompagnare a casa, temendo le intrusioni del D., essendo stata costretta ad installare un blocco in entrata nelle chiamate in arrivo dei propri apparecchi telefonici ed a giustificare continuamente, presso i propri contatti anche di lavoro, le continue intrusioni diffamatorie del D. sui social network.

4. Quella di atti persecutori è strutturalmente una fattispecie di reato abituale – in quanto primo elemento del fatto tipico è il compimento di “condotte reiterate”, omogenee od eterogenee tra loro, con cui l’autore minaccia o molesta la vittima – ad evento di danno, che prevede più eventi in posizione di equivalenza, uno solo dei quali è sufficiente ad integrarne gli elementi costitutivi necessari (Sez. 5, n. 39519 del 05/06/2012, G., Rv. 254972): a) cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero b) ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un
prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero, ancora, c) costringere (la vittima) ad alterare le proprie abitudini di vita.

5. Nella fattispecie in esame, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, la Corte territoriale ha evidenziato come sulla base dello stesso narrato della p.o. emerga il determinarsi quantomeno dell’evento dello stato di ansia e tensione della vittima. Tale stato, prescinde dall’accertamento di un vero e proprio stato patologico e non richiede necessariamente una perizia medica, potendo il giudice argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell’agente sull’equilibrio psichico della persona offesa, anche sulla base di massime di esperienza (Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, Rv. 260412). In particolare, più volte questa Corte ha evidenziato come, ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell’agente (Sez. 5, n. 47195 del 06/10/2015 Rv. 265530; Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017, Rv. 269621), essendo sufficiente che gli atti ritenuti persecutori – nella specie costituiti da minacce, molestie insulti alla persona offesa, inviati anche con post e messaggi – abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612 bis c.p. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 c.p.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (Sez. 5, n. 18646 del 17/02/2017 Rv. 270020).
La prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, poi, ben può essere ricavata oltre che dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Sez. 6, n. 50746 del 14/10/2014), elementi questi tutti adeguatamente rappresentati nella sentenza impugnata.

6. Va infine evidenziato che l’ulteriore aspetto segnalato dal ricorrente, circa i momenti di avvicinamento della vittima all’imputato, è stato correttamente ritenuto irrilevante dalla Corte territoriale al fine della sussistenza del reato contestato.
Ed invero più volte questa Corte ha evidenziato come nell’ipotesi di atti persecutori commessi nei confronti della ex convivente, l’attendibilità e la forza persuasiva delle dichiarazioni rese dalla vittima del reato non sono inficiate dalla circostanza che all’interno del periodo di vessazione la persona offesa abbia vissuto momenti transitori di attenuazione del malessere in cui ha ripristinato il dialogo con il persecutore (Sez. 5, n. 5313 del 16/09/2014 Rv. 262665 – 01, atteso che l’ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell’imputato non rende di per sè inattendibile la narrazione delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell’analisi delle dichiarazioni in seno al contesto degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice (Sez. 6, n. 31309 del 13/05/2015 Rv. 264334), attenzione questa che risulta essere stata adeguatamente prestata, per quanto è dato evincere dalla motivazione della sentenza impugnata.

7. Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende, nonchè alla rifusione delle spese della parte civile, liquidate in complessivi Euro 2500,00, oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende, nonchè alla rifusione delle spese di difesa della parte civile nel presente grado di giudizio che liquida in complessivi Euro 2.500 oltre accessori di legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 17 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2019

Internet ed i social network costituiscono la rivoluzione sociale più importante degli ultimi tempi. Il loro avvento ha modificato la vita ed i rapporti sociali delle persone oltre che il loro modo di pensare e comportarsi.
L’era digitale ha offerto la possibilità di comunicare in modo immediato e diffuso, raggiungendo con estrema facilità un numero indeterminato di persone.
Protetti dallo schermo spariscono le inibizioni, si acquista sicurezza nell’esprimere apertamente pensieri ed opinioni e si affrontano con maggior coraggio discussioni e litigi.

Non solo. I social network consentono di mostrarsi diversamente da quel che si è o addirittura permettono di creare identità fittizie. Alle infinite possibilità di informazione, connessione ed amicizia si contrappongono ambiguità, anonimato ed esposizione. Nessuno ha davvero la certezza su chi si nasconda dall’altra parte del monitor e si trova esposto a possibili inganni, giudizi, diffamazioni o molestie.

Le applicazioni di messaggistica istantanea hanno privilegiato, altresì, l’utilizzo della comunicazione in forma scritta rispetto a quella orale (telefonica o personale che sia), dando la possibilità di inviare un numero illimitato di messaggi mediante internet e di comunicare contemporaneamente con più persone.
Il “mondo virtuale”, costituito da piattaforme come Facebook, Twitter, Youtube, LinkedIn e applicazioni di messaggistica come Whatsapp, Messanger, Telegram o simili, nella loro utilità e facilità di utilizzo presentano non poche insidie. I social network, infatti, costituiscono terreno fertile per la commissione di condotte integranti fattispecie di reato, aventi conseguenze penali delle quali la maggior parte delle persone pare non avere precisa consapevolezza.

La giurisprudenza è ormai copiosa con riferimento a furti di identità, sostituzioni di persona, diffamazioni, molestie, stalking, revenge porn perpetrate proprio attraverso l’utilizzo dei social media. Ed è in questi casi che le infinite possibilità offerte da internet si scontrano con il diritto penale.

Il reato di maggiore contestazione nelle aule di tribunale è quello di diffamazione.

Comunicare nell’era digitale è semplice e veloce: ogni messaggio, video o immagine pubblicata sul web è in grado di raggiungere un numero indeterminato di persone. Tuttavia, laddove il contenuto della pubblicazione offenda una persona individuata, la condotta potrà integrare il delitto di diffamazione.
Ed invero, l’articolo 595 c. p. punisce chiunque comunicando con più persone offende l’altrui reputazione. In particolare, il reato si configura laddove taluno rivolga ad un destinatario individuabile un’espressione offensiva, percepita, anche non contemporaneamente, da parte di più persone, con la coscienza e volontà di arrecare offesa al decoro, onore e reputazione del destinatario stesso. L’espressione può dirsi offensiva laddove vada a ledere le qualità personali, morali, sociali, professionali di una data persona, compromettendone l’immagine, l’onore o il decoro.
La diffamazione è punita più gravemente qualora l’offesa sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità. Ed è proprio tale forma aggravata che la Cassazione, ormai granitica sul punto, ha ritenuto integrata in tutte le ipotesi di diffamazione a mezzo internet, proprio in virtù della potenziale capacità dell’offesa di raggiungere un numero indeterminato o comunque apprezzabile di persone, dato il carattere pubblico dello spazio virtuale e la possibile sua incontrollata diffusione.
La condotta diffamatoria si distingue da quella integrante l’ingiuria – divenuta illecito civile in seguito alla depenalizzazione operata con D.Lvo. 15 gennaio 2016 n. 7 -, che consiste, invece, nell’offesa all’onore ed al decoro di una persona presente, in assenza della percezione da parte di più persone dell’offesa medesima.

Ebbene, pubblicare pensieri, immagini, video o rivolgere espressioni dal contenuto offensivo utilizzando piattaforme social (quali ad esempio Facebook, Instagram, LinkedIn, Twitter, YouTube) integra il delitto di diffamazione nella sua forma aggravata. In particolare, a titolo esemplificativo, integra il reato pubblicare un messaggio lesivo dell’onore e della reputazione di un soggetto sulla bacheca Facebook del proprio profilo personale, su quella del destinatario o di altri oppure all’interno di conversazioni intrattenute nelle pagine delle piattaforme social.
Il delitto di diffamazione risulta, altresì, integrato laddove le espressioni offensive vengano rivolte in una chat di gruppo (whatsapp o altra applicazione di messaggistica che preveda tale funzionalità). In tale casi la Cassazione ha ritenuto configurabile il delitto di diffamazione e non l’illecito civile di ingiuria anche nell’eventualità in cui tra i fruitori del messaggio figuri la persona nei cui confronti vengono formulate le espressioni offensive (vale a dire la stessa persona offesa è inserita nel gruppo). Se la distinzione tra ingiuria e diffamazione riposa sulla dimensione in cui si colloca l’espressione offensiva – interpersonale tra offensore e offeso, per l’ingiuria, e mediante la percezione da parte di più persone, per la diffamazione – l’elemento per cui il messaggio inviato in una chat di gruppo sia diretto ad una cerchia di fruitori (oltre che essere percepito direttamente dall’offeso), per la Cassazione integra il reato di diffamazione (cfr. Cass. Pen., Sez. V., 17 gennaio 2019, n. 7904). Pertanto, inviare un messaggio offensivo tramite sms, whatsapp, email o simili al solo destinatario dell’offesa, integra l’illecito civile di ingiuria. Qualora il medesimo messaggio sia inviato all’interno di un gruppo di messaggistica o mediante mailing list, la condotta integra, invece, gli estremi della diffamazione.

I social network non sono soltanto possibile teatro di diffamazioni ma possono rappresentare anche terreno fertile per la commissione di condotte che integrano il delitto di sostituzione di persona.

Ed invero, l’art. 494 c. p. punisce chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici. In particolare, la condotta punita consiste nell’indurre in errore terze persone mediante una delle modalità tassativamente previste dalla norma, indipendentemente dal fatto che l’intento perseguito dall’autore sia lecito o illecito oppure non venga neppure realizzato. La condotta, infatti, deve essere posta in essere con il fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio, patrimoniale o non patrimoniale che sia, ovvero di recare ad altri un danno. Pertanto, la semplice finzione non costituisce reato ma occorre a tal fine il perseguimento di uno dei suddetti scopi.
Ebbene, la Cassazione ha ritenuto che tale reato sia configurabile anche se commesso tramite internet. La “piazza virtuale”, infatti, si sposa perfettamente con la possibilità di ingannare il prossimo celandosi dietro profili fittizi o attribuendosi o attribuendo qualità o status non veritieri. In particolare, sono state riconosciute integranti il reato di sostituzione di persona le condotte di creare un falso profilo sulle piattaforme social al fine di molestare o denigrare taluno; attribuirsi una falsa qualifica professionale (ad esempio false identità sui social network millantando posizioni professionali di prestigio per corteggiare le vittime, invitarle a falsi colloqui di lavoro o per aumentare i propri follower); creare ed utilizzare un “profilo” sui social network, utilizzando abusivamente l’immagine di una persona del tutto inconsapevole, associata ad un “nickname” di fantasia ed a caratteristiche personali negative (Cass. Pen., Sez. 5, 23 aprile 2014, n. 25774); attribuirsi un falso nome in modo da poter avviare una conversazione con soggetti che, altrimenti, non avrebbero concesso la loro amicizia e confidenza; attribuirsi un nome immaginario o quello di una persona famosa o influente oppure far credere di avere un’età diversa da quella reale per iniziare conversazioni o instaurare relazioni personali. Queste sono soltanto alcune delle condotte ritenute integranti il reato, a fronte di una casistica giurisprudenziale ormai copiosa in materia.

Il reato, inoltre, concorre con quello di accesso abusivo a sistema informatico di cui all’art. 615 ter c. p. qualora la persona acceda al profilo Facebook di un’altra e scriva o invii messaggi ad altre persone dal medesimo profilo (cfr. Cass. Pen., Sez. V, 23 marzo 2018, n. 20485).

I social network costituiscono, inoltre, strumento per porre in essere condotte maggiormente insidiose della vita altrui che possono arrivare ad integrare i delitti di atti persecutori (c.d. stalking) o minaccia.

Lo stalking, di cui all’art. 612 bis c. p., è un reato di natura abituale, ove l’autore, mediante condotte reiterate, molesta e minaccia la vittima in modo da produrre alternativamente uno degli eventi indicati nella norma. Tali eventi consistono nel cagionare alla vittima un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero, ancora, costringere la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita.
Il delitto di stalking può essere commesso anche mediante l’utilizzo dei social network, parlandosi in tal caso di cyberstalking.
Tale reato si configura nel momento in cui gli atti persecutori vengono effettuati tramite l’utilizzo dei moderni mezzi di comunicazione, come la messaggistica istantanea dei cellulari ed i social network. In particolare, ad esempio, inviare reiteratamente sms, e-mail o post sui social network o diramare foto e video della vittima, può tradursi in una condotta persecutoria integrante il reato (cfr. Cass. Pen., Sez. V, 17 settembre 2019, n. 45141).
Se la condotta non risulta idonea ad integrare il delitto di atti persecutori, l’atteggiamento molesto nei confronti di un’altra persona, potrebbe comunque integrare il reato di cui all’art. 660 c. p., il quale punisce chiunque in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero con il mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo. Per petulanza viene inteso un atteggiamento di insistenza eccessiva, di arrogante invadenza e di intromissione continua e pressante nell’altrui sfera di quiete e libertà. In particolare, la Cassazione ha ritenuto configurabile il reato interpretando in senso estensivo la nozione di luogo aperto al pubblico, ricomprendendo in questa anche i social network o le community, proprio in quanto piazze virtuali che consentono un numero indeterminato di accessi e di visioni(cfr. Cass. Pen., Sez. I, 11 luglio 2014, n. 37596).

Mediante internet ed i social network è possibile, altresì, integrare il delitto di minaccia qualora le pubblicazioni rivolte ad un destinatario individuabile abbiano contenuto intimidatorio. L’art. 612 c. p. punisce chiunque minaccia ad altri un danno ingiusto, intendendosi per minaccia la prospettazione di un male ingiusto tale da ingenerare timore o turbamento nella persona offesa.
Ebbene, il reato di minaccia risulta configurabile anche se posto in essere con modalità “a distanza” e, dunque, anche mediante l’utilizzo di sms privati o mediante le piattaforme social (cfr. Cass. Pen., sez. V, 19 aprile 2016, n. 16145).

Infine, i social network risultano anche possibili teatri di condotte integranti il c.d. revenge porn, gravemente lesivo della privacy e della dignità della persona.

In particolare, l’art. 612 ter c. p. punisce chiunque invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate. Pertanto, divulgare a terzi un contenuto sessualmente esplicito, senza il consenso della persona ritratta, integra il delitto suddetto, la cui pena è, inoltre, aggravata qualora i fatti siano commessi attraverso strumenti informatici o telematici.

Concludendo a fronte delle infinite possibilità offerte dai social network è fondamentale ponderare i propri comportamenti tenendo conto che quanto pubblicato è astrattamente visibile da un numero indeterminato di persone e che questo espone gli autori a ripercussioni anche di carattere penale.

 

Avv. Andrea Di Giuliomaria

La legge 9 gennaio 2019, n. 3, abrogando l’art. 346 c.p. e riformulando l’art. 346 bis c.p., ha incluso in tale ultima fattispecie sia la relazione asserita sia quella esistente, nel contempo dando alternativamente rilievo tanto alla vanteria, quale allegazione autoreferenziale di una specifica capacità di influenza, quanto allo sfruttamento di quella capacità, in funzione della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, quale prezzo della mediazione illecita verso un soggetto qualificato o quale remunerazione dell’esercizio da parte di questo delle sue funzioni o dei suoi poteri. Ciò significa che la fattispecie è configurabile a prescindere dalla circostanza che ricorra una vanteria da parte del soggetto che riceve la promessa o la dazione, essendo bastevole che costui consapevolmente si avvalga dell’influenza riconosciutagli, ottenendo per questo denaro o altra utilità, ciò in cui si concreta lo sfruttamento della relazione.

In forza della clausola di sussidiarietà espressa contenuta nell’incipit della norma il delitto in esame rimane, invece, assorbito ove sia configurabile un vero e proprio patto corruttivo, di cui agli artt. 318, 319, 319 ter o ai reati di cui all’art. 322bis c.p. Tali ipotesi corruttive si configurano qualora la promessa o la dazione siano volte a remunerare il pubblico ufficiale munito delle competenze dedotte nel patto o comunque rientranti nelle competenze dell’ufficio cui il soggetto appartiene ed in relazione al quale esercita o possa esercitare una forma di ingerenza, sia pure di fatto.

 

Penale Sent. Sez. 6 Num. 12095 Anno 2020
Presidente: FIDELBO GIORGIO
Relatore: RICCIARELLI MASSIMO
Data Udienza: 19/02/2020

 

SENTENZA

sul ricorso presentato da
P.M. presso Tribunale di Potenza
nei confronti di
De Bonis Cristalli Raffaele Mario, nato il 18/12/1934 a Potenza

avverso l’ordinanza del 7/11/2019 del Tribunale di Potenza

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Massimo Ricciarelli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale M.
Giuseppina Fodaroni, che ha concluso per l’annullamento con rinvio;
udito il difensore, Avv. Massimo Biffa, che si è riportato alla memoria depositata
chiedendo la declaratoria di inammissibilità o il rigetto del ricorso.

 

RITENUTO IN FATTO

 

1. Con ordinanza del 7/11/2019 il Tribunale Potenza in sede di riesame ha parzialmente annullato quanto alle incolpazioni di cui ai capi b) e d), ma per il resto confermato quella del 14/10/2019, con cui il GIP del Tribunale di Potenza ha applicato a De Bonis Cristalli Raffaele Mario la misura cautelare degli arresti domiciliari.

2. Ha presentato ricorso il P.M. presso il Tribunale di Potenza, in relazione all’annullamento dell’ordinanza genetica nella parte riguardante il reato di traffico di influenze ex art. 346-bis cod. pen., di cui al capo d) dell’incolpazione provvisoria.
2.1. Con il primo motivo deduce violazione di legge in relazione agli artt. 346- bis e 319 cod. pen.
L’ipotesi accusatoria si incentrava sulla dazione della somma di euro 25.000,00 da parte del De Bonis a tal Di Lascio, uomo di fiducia del Governatore della Regione Basilicata, perché con la sua influenza agevolasse la società facente capo a tal Barozzi, cliente del De Bonis, nella trattazione da parte dei competenti uffici regionali del finanziamento e del pagamento di lavori riferiti alla realizzazione di un’opera appaltata alla società del Barozzi.
Il Tribunale aveva tuttavia escluso l’ipotesi oggetto di incolpazione, in quanto non era emersa una vanteria del Di Lascio ed era risultato che il De Bonis era in grado di tenere diretti contatti con personaggi influenti, e aveva semmai ravvisato il fumus di una pattuizione di tipo corruttivo, nell’ambito della quale il Di Lascio era inserito, in quanto soggetto in stretto collegamento con i contraenti del patto, quale uomo di fiducia del Presidente Pittella e collaboratore con il capogruppo PD. Il ricorrente, a fronte di ciò, rileva che la documentazione acquisita aveva posto in luce che lo sblocco della situazione riguardante il Barozzi era cominciato all’inizio del 2019, allorché la Giunta regionale, assente il Pittella, perché sospeso in ragione di separate vicissitudini giudiziarie, aveva approvato l’aumento per il completamento dell’appalto, dopo di che si erano progressivamente registrati ulteriori interventi dell’apparato tecnico volti a propiziare esiti conformi agli auspici del Barozzi, in una fase in cui né Pittella né Di Lascio avevano competenze dirette sul procedimento e il Pittella nemmeno sul versante politico, fermo restando che il condizionamento dell’evoluzione della pratica vi era stato.
Tali elementi consentivano di ravvisare solo il delitto oggetto di incolpazione e non quello di corruzione.
Inoltre il Tribunale aveva erroneamente interpretato l’art. 346-bis cod. pen., dando rilievo all’aspetto della vanteria, che a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 3 del 2019 non avrebbe potuto considerarsi elemento fondante, potendosi configurare il reato nei confronti di chi abbia davvero relazioni e ruolo ed eserciti la sua influenza, facendosi remunerare.
Il Tribunale non aveva considerato che la fattispecie pone in alternativa la vanteria e lo sfruttamento effettivo delle relazioni, nel caso di specie da correlarsi alla vicinanza del Di Lascio al Pittella, parimenti in grado di caldeggiare la pratica Barozzi.
Peraltro il Di Lascio non avrebbe avuto motivo di vantare alcunché, in quanto era ben nota la sua vicinanza ad ambienti politici e amministrativi e per questo era cercato dal De Bonis.
Segnala il ricorrente la valenza di alcune conversazioni intercettate e la neutralità degli elementi valorizzati dal Tribunale, ribadendo che il delitto di corruzione avrebbe richiesto che il pubblico ufficiale avesse le competenze dedotte nel patto, mentre nel caso in esame, per ragioni diverse, ciò non avrebbe potuto dirsi né per il Di Lascio né per il Pittella.
2.2. Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione in ordine all’assenza di elementi sintomatici della condotta di traffico di influenze e al fumus del delitto di corruzione.
Rileva il ricorrente che il Tribunale aveva dato rilievo all’assenza di prova di condotte di vanteria e alla presenza del fumus della corruzione, ma poi in concreto non aveva sviluppato alcuna motivazione sugli elementi sintomatici di tale fumus. Rileva inoltre che nelle pagg. da 61 a 75 il Tribunale, nel dar conto del compendio indiziario, aveva enfatizzato frasi captate per dimostrare che era il De Bonis a cercare il Di Lascio e che dunque era mancata la vanteria da parte di quest’ultimo, nel quadro di un rapporto di parità tra De Bonis e Pittella, e aveva inoltre nella medesima prospettiva esaminato l’iter amministrativo della pratica, peraltro dando vita ad una elencazione di risultati, slegata rispetto al fine di dimostrare l’assenza di vanteria e il fumus della corruzione.
Ed ancora il Tribunale era incorso in un errore logico nel rimarcare l’autorevolezza del De Bonis, quale soggetto in grado di relazionarsi autonomamente, in quanto i riferimenti alle intercettazioni deponevano nel senso contrario, attestando che semmai il De Bonis si recava nello studio del Marsico anche su indicazione di Di Lascio, fermo restando che comunque il dato era compatibile con la ricostruzione accusatoria, potendosi ipotizzare che il De Bonis anche in proprio giocasse le sue carte, agendo su più fronti.
Ma alla resa dei conti l’intera motivazione era fondata sull’erronea impostazione dei profili giuridici, nel presupposto che fosse necessario riscontrare condotte di vanteria, che avrebbero invece potuto mancare, senza incidere sulla configurabilità del reato.

3. Ha depositato una memoria il difensore del De Bonis, deducendo l’inammissibilità del ricorso, in quanto generico e comunque volto a contestare la valutazione di merito, adeguatamente motivata dal Tribunale, e in quanto volto ad introdurre profili non emergenti specificamente dal generico capo di incolpazione, quanto al rilievo della condotta di sfruttamento, e comunque manifestamente infondato sotto il profilo dell’analisi giuridica della fattispecie.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato.

2. Il Tribunale, nel rivalutare il quadro indiziario, è incorso nei vizi denunciati dal P.M. ricorrente, da un lato indebitamente valorizzando l’elemento della vanteria, a fronte dell’effettivo tenore dell’art. 346-bis cod. pen., come riformulato dalla legge 3 del 2019, e dell’oggetto dell’incolpazione provvisoria, dall’altro limitandosi genericamente a prospettare in controluce il fumus di un patto corruttivo, al cospetto di un quadro indiziario di per sé coerente con l’ipotesi accusatoria e in assenza della precisa indicazione dei poteri e delle competenze nel patto, riferibili a pubblici ufficiali asseritamente in esso coinvolti.

3. Deve al riguardo in generale osservarsi che il reato di traffico di influenze è destinato ad assicurare copertura anticipata a tutte le forme di programmata interferenza con l’agire della P.A., idonea ad alterarne il buon andamento.
In tale prospettiva la legge 3 del 2019, in luogo dell’equivoco riferimento alla millanteria, contenuto nell’originaria fattispecie di cui all’art. 346 cod. pen., contrapposta allo sfruttamento di relazioni esistenti, ha incluso nell’unica fattispecie di cui al riformulato art. 346-bis, cod. pen., sia la relazione asserita sia quella esistente, nel contempo dando alternativamente rilievo tanto alla vanteria, quale allegazione autoreferenziale di una specifica capacità di influenza, quanto allo sfruttamento di quella capacità, in funzione della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, quale prezzo della mediazione illecita verso un soggetto qualificato o quale remunerazione dell’esercizio da parte di questo delle sue funzioni o dei suoi poteri.
Ciò significa che la fattispecie non riposa necessariamente sulla millanteria o sulla vanteria, ma può essere integrata dalla correlazione eziologica tra promessa o dazione da un lato e sfruttamento della capacità di influenza dall’altro, in quanto quest’ultima costituisca un dato che non necessiti di specifica illustrazione ma possa dirsi il presupposto anche implicito dell’intercorsa pattuizione o comunque della dazione.

4. Va poi rimarcato che l’ipotesi del traffico di influenze è caratterizzata da una clausola di sussidiarietà espressa, in forza della quale la stessa sfuma ed è assorbita, ove sia invece configurabile un vero e proprio patto corruttivo riconducibile alle fattispecie di cui agli artt. 318, 319, 319-ter o ai reati di cui all’art. 322-bis.

Conseguentemente deve escludersi la configurabilità del delitto di cui all’art. 346-bis cod. pen. allorché la promessa o la dazione siano volte a remunerare il pubblico ufficiale e questo sia direttamente attratto nel patto, divenendone partecipe, quale beneficiario diretto o indiretto del denaro o dell’utilità.

E’ infatti di tutta evidenza che in un caso del genere non vi è ragione di apprestare una tutela anticipata rispetto ad un rischio di coinvolgimento dell’effettivo esercizio della funzione, che si è ormai concretizzato.

5. Devono peraltro formularsi ancora due precisazioni di carattere generale.

5.1. In primo luogo si rileva che il reato di cui all’art. 346-bis è aggravato se chi indebitamente fa dare denaro o altra utilità riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio: ciò, al fine di distinguere tale fattispecie da quella della corruzione, implica che la qualifica venga in rilievo come mera qualità di posizione, non implicante il dinamico manifestarsi di competenze e poteri del soggetto qualificato, risultando ravvisabile il delitto di corruzione quando al contrario risultino specificamente dedotti all’interno del patto quelle competenze o quei poteri.
Va infatti richiamato il principio consolidato in forza del quale il delitto di corruzione rientra tra i reati funzionali, con la conseguenza che l’atto dedotto nel patto, se non deve essere ricompreso nelle specifiche mansioni, deve comunque rientrare nelle competenze dell’ufficio cui il soggetto appartiene e in relazione al quale eserciti o possa esercitare una forma di ingerenza, sia pure di fatto (Sez. 6, n. 17973 del 22/1/2019, Caccuri, rv. 275835; Sez. 6, n. 23355 del 26/2/2016, Margiotta, rv. 267060).
Tale principio deve essere letto alla luce di quello in forza del quale l’atto di ufficio deve concretare l’esercizio dei poteri funzionali, non rientrando in esso quello che debba intendersi compiuto «in occasione dell’ufficio» e che se del caso si risolva nella mera segnalazione o raccomandazione (Sez. 6, n. 7731 del 12/2/2016, Pasini, rv. 266543; Sez. 6, n. 38762 del 8/3/2012, D’Alfonso, rv. 253371).
5.2. In secondo luogo deve osservarsi che la relazione di sussidiarietà rispetto alle ipotesi di corruzione implica che, in presenza di elementi di per sé coerenti con la sussunzione nella fattispecie del traffico di influenze, il delitto di corruzione possa dirsi prevalente, solo in quanto questo sia non solo genericamente prospettato ma anche concretamente suffragato, in ragione del fatto che originariamente il prezzo fosse causalmente destinato al soggetto qualificato e non volto a compensare una mediazione (sul punto per il rilievo del profilo causale: Sez. 6, n. 4113 del 14/12/2016, dep. nel 2017, rv. 269736) o che comunque il soggetto qualificato fosse stato effettivamente reso partecipe del patto, quale beneficiario della dazione o della promessa in relazione all’esercizio delle sue funzioni,essendo per contro insufficiente la mera consegna sine titulo di somme ad un intermediario, in mancanza di elementi idonei a dimostrare che si sia consumato un episodio di corruzione (sul punto Sez. 6, n. 1 del 2/12/2014, dep. nel 2015, Pedrotti, rv. 262929; Sez. 6, n. 2006 del 13/8/1996, Pacifico, rv. 206122).

6. Alla luce di tali premesse, si rileva che il Tribunale ha erroneamente valorizzato il tema della vanteria, giungendo ad escludere il reato in ragione del fatto che, secondo la proposta ricostruzione, non era emersa una specifica prospettazione da parte del Di Lascio della propria capacità di influenza ed al contrario risultava che il De Bonis era in grado di disporre di proprie entrature negli ambienti politici ed amministrativi: si è in realtà rilevato come il reato di traffico di influenze sia configurabile a prescindere dalla circostanza che ricorra una vanteria da parte del soggetto che riceva la promessa o la dazione, essendo bastevole che costui consapevolmente si avvalga dell’influenza riconosciutagli, ottenendo per questo denaro o altra utilità, ciò in cui si concreta lo sfruttamento della relazione, che nel caso di specie aveva parimenti formato oggetto dell’incolpazione provvisoria.
D’altro canto l’ordinanza genetica aveva posto in luce che non solo il De Bonis si era rivolto al Di Lascio in ragione delle relazioni di cui costui notoriamente e stabilmente godeva (il dato è invero incontestato), in primo luogo con il Presidente Pittella, ma si era concretamente avvalso del Di Lascio, al fine di perorare la causa del suo cliente Barozzi presso gli organi amministrativi chiamati ad occuparsi delle questioni legate all’appalto aggiudicato alla Cobar, concernenti lo sblocco dei pagamenti pretesi dal Barozzi.
A fronte di ciò il Tribunale, pur avendo dato conto di un incontro cui aveva partecipato il Di Lascio, unitamente al Pittella e al candidato Trerotola, con il Direttore Generale Marsico e pur avendo inoltre fatto riferimento ad una conversazione intercorsa tra il De Bonis e il Di Lascio in cui il primo riferiva al secondo di essere andato «dove mi avevi detto di andare a vedere…le carte, le cose,..il fascicolo..» (pag. 73 dell’ordinanza impugnata), ha contraddittoriamente concluso nel senso che il De Bonis si era autonomamente attivato, in quanto in
grado di farlo in forza delle sue autonome entrature.

7. Sotto diverso profilo va rimarcato come il Tribunale abbia dato conto del versamento di euro 25.000,00 nelle mani del Di Lascio, avvenuto il giorno successivo a quello delle elezioni regionali (somma che anche il Tribunale ha  escluso di poter ricondurre, al di là delle apparenze, ad un neutro contributo elettorale), ma abbia nondimeno prospettato che ciò valeva a connotare il fumus di un più ampio rapporto di tipo corruttivo, coinvolgente, per quanto è dato comprendere, il Presidente Pittella.
Orbene, anche con riguardo a tale aspetto risultano fondati i rilievi del P.M. ricorrente.
Deve infatti sottolinearsi che il Tribunale da un lato ha prospettato la riferibilità della dazione ad un consolidato rapporto corruttivo, ma dall’altro ha ritenuto che fosse configurabile genericamente il fumus di un siffatto rapporto, del quale non ha concretamente indicato origine, sviluppo e contenuto, in relazione a competenze e poteri del pubblico ufficiale coinvolto.
Va a questo riguardo rilevato che l’incolpazione provvisoria aveva ad oggetto l’esercizio dell’influenza presso gli uffici della Regione, competenti per le questioni relative al citato appalto, e che inoltre lo stesso Tribunale ha dato conto del rapporto intercorso tra il De Bonis e di Di Lascio e del successivo pagamento fatto nelle mani di quest’ultimo.
Ma alla resa dei conti, a fronte di quanto esposto nell’ordinanza genetica, in cui erano stati posti in stretta relazione i contatti tra il De Bonis e il Di Lascio, i contatti registratisi presso gli uffici amministrativi competenti e la dazione della somma, il Tribunale ha finito per sovrapporre solo genericamente un’ipotesi corruttiva, ipotizzando il coinvolgimento del Pittella, ma senza considerare quali competenze e poteri di quest’ultimo potessero dirsi dedotti nel patto corruttivo in una fase in cui lo stesso Pittella, già sospeso e sottoposto a misura custodiale, era stato poi assoggettato a misura non custodiale, pur di seguito revocata, nell’ambito di una separata indagine, e in cui comunque venivano in rilievo competenze spettanti agli uffici amministrativi.
In altre parole ad elementi sussumibili nella fattispecie del traffico di influenze, direttamente e primariamente coinvolgente il Di Lascio, a fronte della dazione ricevuta, quand’anche destinata a soggetto a lui comunque strettamente legato, il
Tribunale ha finito per contrapporre un’ipotesi di corruzione non specificamente delineata e dunque non idoneamente suffragata, non avendo ricostruito la connotazione funzionale del patto corruttivo e la connotazione causale della dazione, in relazione all’esercizio di competenze spettanti ad un definito pubblico ufficiale, che è stato sì individuato nel Pittella, ma senza un inquadramento contestualizzato di funzioni pubbliche realmente dedotte e concretamente esercitate.

8. I riscontrati vizi assumono dunque rilievo sia sotto il profilo giuridico sia sotto quello della motivazione e impongono l’annullamento in parte qua dell’ordinanza impugnata, con rinvio per nuovo esame, da effettuarsi alla luce dei rilievi esposti.

P. Q. M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Potenza, sezione per il riesame dei provvedimenti cautelari personali.
Così deciso il 19/2/2020