avvocato di giuliomaria

 

DECRETO LEGGE 16 MAGGIO 2020, N. 33:

NUOVE DISPOSIZIONI IN ORDINE AGLI SPOSTAMENTI DELLE PERSONE FISICHE

A decorrere dal 18 maggio 2020 verranno meno tutte le misure limitative della circolazione all’interno del territorio regionale, salvo eventuali limitazioni disposte dallo Stato o dalle Regioni, con riferimento a specifiche aree interessate da un particolare aggravamento della situazione epidemiologica.

Pertanto, all’interno del territorio regionale, non sarà più necessario portare con sé l’autodichiarazione al fine di giustificare lo spostamento.

L’autocertificazione rimarrà, invece, necessaria, fino al 2 giugno 2020, per gli spostamenti in una Regione diversa da quella in cui attualmente ci si trova e per gli spostamenti da e per l’estero, i quali devono essere motivati da comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero motivi di salute.

Resta in ogni caso consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza. Permane il divieto di assembramento in luoghi pubblici o aperti al pubblico e l’obbligo di mantenere la distanza interpersonale di almeno un metro. Le misure previste dal decreto si applicato fino alla data del 31 luglio 2020.

La violazione delle disposizioni del decreto e di eventuali dpcm o ordinanze attuative del medesimo è punita con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000, salvo che il fatto costituisca reato diverso da quello di cui all’art. 650 c.p.

La violazione della misura della quarantena disposta con provvedimento dell’autorità sanitaria è punito con l’arresto da 3 mesi a 18 mesi e con l’ammenda da euro 500 ad euro 5.000, salvo che il fatto costituisca violazione dell’art. 452 c.p. o comunque più grave reato.

Pisa, 17 maggio 2020

Avv. Andrea Di Giuliomaria

In tema di reato colposo omissivo improprio, al fine di ritenere sussistente la responsabilità del medico per la morte del paziente, risulta necessario accertare in primis il rapporto di causalità tra omissione ed evento il quale non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma occorre accertare che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. In particolare, il giudizio contro-fattuale, necessario per accertare che l’azione doverosa omessa avrebbe impedito l’evento, deve fondarsi su un giudizio di alta probabilità logica, fondato non solo su affidabili informazioni scientifiche, ma anche sulle contingenze significative del caso concreto.
Nel caso di specie la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza impugnata risultando lacunosa la motivazione nella parte in cui si limitava ad affermare la sussistenza del nesso causale alla luce del mero dato statistico ed astratto, prescindendo completamente dalle peculiarità della situazione concreta.

 

Penale Sent. Sez. 4 Num. 10175 Anno 2020
Presidente: CIAMPI FRANCESCO MARIA
Relatore: PICARDI FRANCESCA
Data Udienza: 04/03/2020

 

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BRACCHITTA SONIA nato a ROMA il 21/09/1973

avverso la sentenza del 10/09/2018 della CORTE APPELLO di ROMA

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere FRANCESCA PICARDI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore ASSUNTA COCOMELLO, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio.
Nell’interesse delle parti civili Cornacchia Luciano e Cornacchia Anna Rita è presente l’avvocato Lavigna Giuseppe del foro di ROMA che insiste per il rigetto del ricorso e deposita nota spese e conclusioni a cui si riporta.
E’ presente l’avvocato SALVATORE VOLPE del foro di Roma per la parte civile Cornacchia Vincenzo che insiste per la conferma della sentenza impugnata con rigetto del ricorso, deposita nota spese e conclusioni a cui si riporta.
E’ altresì presente l’avvocato SCALISE GAETANO ANTONIO del foro di ROMA per la ricorrente BRACCHITTA SONIA che illustra i motivi del ricorso ed insiste per l’accoglimento.
Si da atto della presenza del dott. Emanuele Acquarelli (ordine degli avvocati di Roma, n. tess. P73159) ai fini della pratica forense.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado con cui Sonia Bracchitta è stata condannata alla pena sospesa di un anno di reclusione, oltre al risarcimento dei danni nei confronti delle parti civili, per il reato di cui all’art. 589 cod.pen., perché, nella sua qualità di medico in servizio presso il reparto di cardiologia dell’ospedale israelitico, che ebbe ad occuparsi della paziente Lidia Angelini, ne cagionava il decesso in data 10 novembre 2012, a causa di insufficienza cardiocircolatoria acuta da trombo embolia polmonare massiva per trombosi venosa profonda, con colpa consistita in imprudenza e negligenza e più precisamente nell’omessa prescrizione e somministrazione di adeguata terapia profilattica antitrombotica a base di derivati eparinici – terapia che, se tempestivamente somministrata sin dal 4 novembre 2012 avrebbe potuto scongiurare l’evento

2. Avverso tale sentenza ha proposto tempestivo ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore, l’imputata che ha dedotto 1) la lacuna motivazionale in ordine alla prima censura di appello sulla causa del decesso che, come emerso nell’istruttoria, non può escludersi dovuto ad un’embolia autoctona della vena cava invece che ad una trombosi venosa profonda negli arti inferiori e, cioè, ad un evento imprevedibile ed inevitabile o, comunque, non collegabile ad una propria condotta omissiva, come spiegato dai consulenti della difesa Prof. Pierluigi Artignani e dott.ssa Rosanna Cecchi; 2) la radicale carenza di motivazione e l’errata interpretazione dell’art. 40 cod.pen. in ordine all’assunzione di una posizione di garanzia da parte propria nei confronti della vittima, essendo Sonia Bracchitta un consulente con contratto di 22 ore settimanali presso l’ospedale israelitico, che si è limitata a visitare la paziente solo nelle ore mattutine dal 5 novembre 2012 all’8 novembre 2012 ed il 9 novembre 2012 unitamente alla dott.ssa Lucianetti, mentre non era nemmeno presente il giorno del ricovero 4 novembre 2012; 3) il vizio motivazionale e l’inosservanza degli artt. 40, secondo comma, e 590 cod.pen., non essendo stato accertato, con un necessario giudizio contro-fattuale, se e con quali probabilità la somministrazione di eparina avrebbe impedito la morte della vittima (gli stessi consulenti del P.M., nei chiarimenti a margine della loro relazione, a p. 7, hanno precisato che anche il metodo di profilassi più efficace e correttamente impiegato non è in grado di annullare il rischio TEV) e soprattutto non essendo stato accertato quando sarebbero insorte le condizioni che avrebbero giustificato la terapia anti-trombosi, consistenti nella persistenza, per un periodo superiore a tre giorni, di una situazione di immobilità o ipomobilità (situazione, peraltro, esclusa dal perito di ufficio, sulla base dei dati riportati in cartella clinica), e non essendosi tenuto conto del rischio emorragico concreto a cui era soggetta Lidia Angelini,
in ragione dell’anemia sideropenica aggravata dalla perdita, durante il ricovero, di un 1 grammo di emoglubina, delle tracce di sangue nelle urine, della dolorabilità in epigastrio, che lasciava presupporre una gastrite erosiva o una lesione ulcerosa gastrica, sicché non può affatto affermarsi che fosse doveroso prescrivere la terapia eparinica e che la relativa omissione fosse rimproverabile; 4) la violazione dell’art. 603, secondo e terzo comma, cod.proc.pen., e la carenza motivazionale in ordine alla mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, tramite nomina di un altro perito – rinnovazione necessaria al fine di disattendere le difformi conclusioni del perito d’ufficio già nominato; 5) la violazione dell’art. 3, primo comma, I. n. 189 del 2012, atteso che la eventuale colpa configurabile deve qualificarsi come lieve, non essendo certa la situazione di ipomobilità/immobilità e considerato il rischio concreto emorragico presente; 6) l’erronea applicazione dell’art. 62-bis cod.pen. essendo state negate con motivazione apodittica le attenuanti generiche.
In data 24 gennaio 2020 risulta depositata ulteriore memoria difensiva dell’imputata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.11 ricorso merita accoglimento.

2. Il primo motivo, avente ad oggetto il vizio motivazionale in ordine alla causa del decesso di Lidia Angelini, che, nella prospettazione della difesa potrebbe essere collegato ad un’embolia autoctona della vena cava invece che ad una trombosi venosa profonda negli arti inferiori, non può essere accolto, atteso che le argomentazioni sul punto del giudice di primo grado, le quali, versandosi in una ipotesi di doppia conforme di condanna, integrano la sentenza impugnata, sono esaustive, non manifestamente illogiche e non presentano alcuna contraddizione con le prove acquisite, su cui, al contrario, si fondano. In particolare, nella sentenza del Tribunale di Roma, si legge a p. 3 che, come precisato dal consulente della difesa Prof. Pierluigi Artignani, le trombosi autoctone a livello cavale o polmonare sono connesse a patologie particolari, quali, ad esempio, neoplasie, e, come precisato dall’altro consulente della difesa dott.ssa Rosanna Cecchi, non vi sono, nel caso di specie, elementi che inducano a ritenere possibile una trombosi autoctona. Il giudice di primo grado ha, dunque, in modo coerente con il quadro probatorio, identificato la causa del decesso in una trombosi profonda venosa, del tutto prevedibile ed evitabile, sottolineando l’irrilevanza, ai fini della individuazione della colpa dell’imputata, dell’esatta individuazione del distretto in cu si è formato il trombo.

3. Pure la seconda censura, avente ad oggetto la posizione di garanzia dell’imputata nei confronti della vittima, è destituita di fondamento.

In primo luogo l’assunzione della posizione di garanzia di un soggetto dipende dall’attività svolta e dai rapporti instaurati rispetto alla vittima, mentre non può essere influenza dal tipo di rapporto contrattuale intercorso con un terzo. Difatti, la giurisprudenza di legittimità ha affermato, proprio in tema di colpa professionale del medico, che il concreto e personale espletamento di attività da parte dello specializzando comporta pur sempre l’assunzione diretta, da parte sua, della posizione di garanzia nei confronti del paziente, condivisa con quella che fa capo a chi le direttive impartisce, secondo i rispettivi ambiti di pertinenza e di incidenza (così già Sez. 4,n. 32901 del 20/01/2004 Ud., dep. 29/07/2004, Rv. 229069 – 01; più recentemente Sez. 4 n. 6215 del 10/12/2009 ud.- dep. 16/02/2010, Rv. 246419 – 01).

Nella sentenza di primo grado si è, del resto, precisato, in modo dettagliato e diffuso, che il medico che ha seguito la paziente, visitandola tutti i giorni dal 5 al 9 novembre 2012, è stata la dott.ssa Sonia Bracchitta, in quanto la dott.ssa Lucianetti è stata in ferie sino al giorno 6 novembre 2012 e non era presente in reparto il 7 e 8 novembre 2012, in quanto addetta all’ambulatorio, sicché, pur in assenza di un’assegnazione formale, non può escludersi l’assunzione, da parte dell’imputata, di una posizione di garanzia di fatto, conformemente al principio secondo cui, in tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante purchè l’agente assuma la gestione dello specifico rischio mediante un comportamento concludente, consistente nella presa in carico del bene protetto (Sez. 4, n. 37224 del 05/06/2019 ud. – dep. 06/09/2019, Rv. 277629 – 01).

4. E’, invece, fondata la terza doglianza, avente ad oggetto il vizio motivazionale e la violazione dell’art. 40 cod.pen. in ordine alla sussistenza del nesso di causalità, che è stato affermato in assenza di un adeguato giudizio contro-fattuale, ed in ordine all’effettiva doverosità della somministrazione dell’eparina, che è stata ritenuta escludendo, in modo illogico e contraddittorio, il rischio emorragico allegato dalla difesa.
Al fine di affrontare correttamente la doglianza in esame, occorre premettere che, come noto, nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva, mentre l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del nesso causale tra condotta ed evento, e cioè il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell’omissione dell’agente rispetto ad
altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo comportano l’esito assolutorio del giudizio (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002 ud. – dep. 11/09/2002, Rv. 222139 – 01).
Si è, tuttavia precisato che il meccanismo controfattuale, necessario per stabilire l’effettivo rilievo condizionante della condotta umana (nella specie: l’effetto salvifico delle cure omesse), deve fondare non solo su affidabili informazioni scientifiche ma anche sulle contingenze significative del caso concreto, dovendosi comprendere: a) qual è solitamente l’andamento della patologia in concreto accertata; b) qual è normalmente l’efficacia delle terapie; c) quali sono i fattori che solitamente influenzano il successo degli sforzi terapeutici (Sez. 4 n. 32121 del 16/06/2010 ud. – dep. 20/08/2010, Rv. 248210 – 01 che ha aggiunto che, sulla base di tali elementi, l’esistenza del nesso causale può essere ritenuta quando l’effetto salvifico dei trattamenti terapeutici non compiuti sia caratterizzata da elevata probabilità logica, ovvero sia fortemente corroborata alla luce delle informazioni scientifiche e fattuali disponibili). Più recentemente Sez. 4, n. 10615 del 04/12/2012 ud. – dep. 07/03/2013, Rv. 256337 – 01, nel riaffermare lo stesso principio e, cioè, che il meccanismo controfattuale, necessario per stabilire l’effettivo rilievo condizionante della condotta umana ovvero l’effetto salvifico delle cure omesse, deve fondare su affidabili informazioni scientifiche nonché sulle contingenze significative del caso concreto, ha annullato la sentenza di merito per carenze motivazionali in ordine all’individuazione dell’esistenza del nesso causale fra la condotta omissiva e l’evento, in quanto non era stata valutata in concreto l’efficacia salvifica delle cure omesse.
Nel caso in esame, come già osservato relativamente alla prima censura, i giudici di merito hanno, in modo ineccepibile, escluso una trombosi autoctona ovvero un decorso causale alternativo ed imprevedibile.
Tuttavia, in ordine all’effetto salvifico della condotta omessa (prescrizione dell’eparina), nella sentenza di primo grado, a p. 21, si legge che, “ipotizzata come realizzata la condotta doverosa omessa, ossia ipotizzando che alla Angelini fosse stata somministrata eparina sin dal giorno 7 novembre (quarto giorno successivo all’inizio dell’ipomobilità), si sarebbe significativamente ridotto il rischio del verificarsi della complicanza trombo-embolica, in quanto la terapia in esame è finalizzata proprio, nei pazienti ospedalizzati a mobilità ridotta, e con altri fattori di rischio, nel caso di specie presenti (età avanzata ed obesità), ad evitare la formazione dei trombi”. Tale conclusione si raccorda con le indicazioni dei consulenti dell’accusa, riportate a p. 11, secondo i quali, “fermo restando che anche il metodo più efficace e correttamente impiegato di profilassi non è in grado di annullare il rischio di trombosi venosa profonda”, l’adeguata terapia avrebbe avuto “una significativa probabilità di evitare l’evento tromboembolitico polmonare e conseguentemente il decesso della paziente”. Nella sentenza di appello a p. 3 si legge che la condotta doverosa avrebbe certamente evitato l’evento mortale, spiegandosi a p. 4 che “la terapia non somministrata nei pazienti ospedalizzati a mobilità ridotta e con altri fattori di rischio è mirata proprio a evitare la formazione di trombi e a ridurre in modo efficace il rischio della complicanza trombo embolia”.
Alla luce dei principi già evidenziati, che impongono di verificare, in base al meccanismo contro-fattuale, che l’azione (doverosa) omessa avrebbe impedito l’evento, secondo un giudizio di alta probabilità logica, fondato non solo su affidabili informazioni scientifiche, ma anche sulle contingenze significative del caso concreto, tale motivazione risulta lacunosa nella parte in cui si limita ad affermare la sussistenza del nesso causale alla luce del mero dato statistico ed astratto, prescindendo completamente dalla situazione concreta e, cioè, dalle condizioni specifiche della paziente (età ed altre patologie accertate e risultanti in modo certo e chiaro dalle sentenze di merito, tra cui la sincope che aveva determinato il ricovero, il diabete mellito di tipo 2, la gastrite cronica, la ipertensione), dal lasso temporale intercorso dal momento in cui sarebbe insorta la doverosità della terapia antitrombotica ed il momento del decesso (momento in cui è insorta la doverosità della terapia antitrombotica: 7 novembre 2012 e, cioè, terzo giorno dopo il ricovero, caratterizzato dalla mobilità ridotta della paziente, che era, invece, stata valutata come autonoma nel momento dell’ingresso in ospedale il 4 novembre 2012, v. sentenza di primo grado; momento del decesso: 10 novembre, ore 6,00); dai tempi ordinari e specifici di efficacia della terapia omessa; dalla stessa evoluzione della patologia trombotica e dall’analisi del relativo grado di gravità al momento in cui si sarebbe dovuta
iniziare la terapia omessa.

A ciò si aggiunga, inoltre, che la motivazione è lacunosa anche in ordine all’individuazione dell’effettiva elevata probabilità logica dell’efficacia salvifica delle cure omesse, individuata in termini generici nella significativa riduzione del rischio del verificarsi della complicanza tromboembolica, senza alcuna risposta alle doglianze della difesa sul punto.
A ciò si aggiunga che, pur essendosi il Tribunale lungamente soffermato sulla doverosità, nel caso concreto, di somministrare farmaci idonei a prevenire il rischio trombotico, la motivazione è esaustiva, non manifestamente illogica e priva di contraddizioni, alla luce della complessa istruttoria dibattimentale e delle prove testimoniali (in particolare di quanto riferito dagli infermieri e dalla nipote della vittima), soltanto riguardo all’effettiva esistenza, in aggiunta all’età e all’obesità, dell’ulteriore fattore di rischio della complicanza trombotica della ridotta mobilità della paziente (ridotta mobilità non percepita e negata dall’imputata ed esclusa anche dal perito nominato il quale, tuttavia, ha fondato il suo giudizio esclusivamente sulle prove documentali). Al contrario, il Tribunale e la Corte di appello hanno escluso (il primo a p. 12 ed il secondo a p. 2), in modo illogico e contraddittorio, il rischio emorragico, allegato dalla difesa. Più precisamente, il Tribunale ha riportato le valutazione del consulente della difesa, dott.ssa Cecchi, secondo cui l’anemia sideropenica, la gastrite cronica, l’insufficienza renale moderata costituivano degli elementi ostativi ad una terapia anti-coagulante, rendendo il rischio emorragico superiore a quello trombotico, e la premessa dei consulenti della pubblica accusa, secondo cui la decisione di iniziare la terapia antitrombotica si basa sempre su una valutazione individuale del rapporto rischio emorragico/trombotico, ma ha, poi, escluso il rischio emorragico in adesione alle indicazioni dei consulenti della pubblica accusa fondate sulle linee guida del 2011, che indicano alcune della situazioni a cui si associa il rischio emorragico. Le linee guida non possono, tuttavia, escludere che il medico, alla luce della condizione specifica della paziente, individui altri elementi concretamente sintomatici del rischio emorragico. A conferma di ciò, è sufficiente richiamare l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di responsabilità medica, il rispetto di linee guida accreditate presso la comunità scientifica non determina, di per sé, l’esonero dalla responsabilità penale del sanitario ai sensi dell’art. 3 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (conv. in legge 8 novembre 2012, n. 189), dovendo comunque accertarsi se la specificità del quadro clinico del paziente imponesse un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato da dette linee guida (Sez. 4, n. 244555 del 22/04/2015 ud.- dep. 08/06/2015, Rv. 263732 – 01).
Da tale premessa deriva, dunque, che, a fronte di due pareri discordanti dei consulenti dell’accusa e della difesa su circostanze non espressamente valutate dalle linee guida, ma che hanno, tuttavia, caratterizzato il caso esaminato dal medico, la decisione dei giudici di merito che scelga tra le due posizioni non può fondarsi sul mero rinvio alle linee guida, che non contemplano e non valutano dette circostanze e che, proprio perché elaborate in via astratta, non possono esaurire tutte le situazioni concrete.
Il giudice di merito dovrà motivare la sua scelta tra le diverse posizioni dei tecnici in base alle leggi scientifiche adattate alle peculiarità del caso concreto, conformemente all’orientamento secondo cui, in tema di prova, in virtù del principio del libero convincimento, il giudice di merito, pur in assenza di una perizia d’ufficio, può scegliere tra le diverse tesi prospettate dai consulenti delle parti, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto con motivazione accurata ed approfondita, delle ragioni della scelta nonché del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti (Sez. 4, n. 8527 del 13/02/2015 ud. – dep. 25/02/2015, Rv. 263435 – 01). Né la completezza della motivazione, in ordine all’esclusione del rischio emorragico, si può rinvenire a p. 14 della sentenza di primo grado, laddove viene ritenuta generica l’allegazione difensiva relativa al dolore gastrico, perché non necessariamente sintomatico di un’ulcera duodenale (fattore di rischio emorragico secondo le linee guida), ma non si approfondiscono gli ulteriori elementi sintomatici, secondo la difesa, del rischio emorragico, indicati nell’atto di appello (in particolare p. 44) e richiamati nel ricorso per cassazione, a cui pure, in parte, si è fatto riferimento nella sentenza (ad esempio, l’anemia, secondo le indicazioni della consulente della difesa).

5. L’accoglimento della censura precedente comporta l’assorbimento di tutti i residui motivi.

6. In definitiva, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di appello di Roma.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, cui demanda anche la regolamentazione delle spese tra le parti di questo giudizio di legittimità.
Così deciso 4 marzo 2020.
Il Consigliere estensore Il Presi
Francesca Picardi

avvocato di giuliomaria

Il nuovo dpcm 26 aprile 2020 disciplina la c.d. Fase 2, introducendo, tra le altre, nuove misure in ordine agli spostamenti. Le disposizioni contenute nel decreto si applicheranno a partire dal 4 maggio, sostituendo quelle attualmente vigenti previste dal dpcm 10 aprile 2020, e saranno efficaci fino al 17 maggio.
Con questo dpcm il Governo aspira ad un ritorno progressivo alla normalità, tentativo che, tuttavia, presenta non pochi dubbi interpretativi, soprattutto in relazione agli spostamenti delle persone fisiche.
Ed invero, quanto agli spostamenti all’interno della Regione, è previsto che questi debbano essere motivati da comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità o motivi di salute. Tra le situazioni di necessità rientrano, a partire dal 4 maggio, anche gli spostamenti finalizzati ad “incontrare congiunti”.
In assenza di una definizione da parte del legislatore dei soggetti che possano rientrare nella categoria dei congiunti, l’unico parametro interpretativo è rappresentato dai codici civile e penale, a mente dei quali in detta categoria rientrerebbero parenti, affini, unioni civili e rapporti di adozione. Pertanto, alla luce di questa chiave interpretativa dovrebbero rientrare in tale categoria:

  • i coniugi, tale per cui qualora un coniuge abiti in una città diversa, risulta possibile operare lo spostamento per fargli visita. Stessa conclusione vale per chi abbia stipulato un contratto di convivenza o abbia costituito un’unione civile;
  • i soggetti legati da un vincolo di parentela. La parentela è riconosciuta dall’ordinamento fino al sesto grado, dunque, figli, genitori, nipoti, nonni, zii, cugini, fino al rapporto intercorrente tra figli di cugini;
  • gli affini. L’affinità è il rapporto che intercorre tra i parenti di un coniuge con l’altro coniuge (suoceri, genero, nuora, cognati). Non sussiste alcun rapporto, invece, tra i parenti dei coniugi tra di loro (le due suocere, ad esempio, non potranno incontrarsi).Tale conclusione sembrerebbe non valere per i soggetti che hanno costituito un’unione civile, in quanto la legge 76/2016 (disciplina delle unioni civili) nel richiamare le norme del codice civile applicabili, non richiama la normativa sull’affinità, portando ad escludere ad esempio che il partecipe dell’unione civile possa andare a far visita ai genitori dell’altro. Tale conclusione sembrerebbe valere anche per le persone che hanno stipulato un contratto di convivenza in quanto attraverso tale contratto sono disciplinati esclusivamente rapporti patrimoniali.

A fronte di una tecnica legislativa assolutamente evanescente – cui, per la verità, l’attuale esecutivo, ci aveva già abituato con i precedenti dpcm – è sopraggiunta anche quella che potremmo definire un’“interpretazione autentica” del Presidente del Consiglio confermata dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti in due distinti interventi, in occasione dei quali si è tenuto a precisare che nella categoria dei congiunti vi rientrerebbero anche le “persone unite da stabili relazioni affettive o affetti stabili”.
Risulterà palese, anche ai non addetti lavori, l’assoluta inafferrabilità dell’inciso “stabile affetto”, inciso che viene posto dal legislatore quale presupposto del divieto che, per definizione, dovrebbe essere connotato da certezza ed essere idoneo ad indirizzare il comportamento dei destinatari di tale precetto.
Infatti, non è dato sapere quale sia il criterio o i criteri alla luce dei quali qualificare una relazione affettiva come “stabile” e, dunque, quali parametri saranno utilizzati dagli operatori deputati ai controlli per determinarsi ad elevare la sanzione amministrativa, o, peggio, per segnalare eventuali dichiarazioni (ritenute) mendaci alla Procura della Repubblica, in ragione di una relazione fittiziamente dichiarata stabile.
Da ultimo, il Viceministro Sileri ha dichiarato che possa considerarsi affetto stabile anche il rapporto di amicizia a condizione che questo possa dirsi “vero”.
Quindi, il Governo invita i consociati a riflettere sulla natura e l’intensità dei propri rapporti interpersonali al fine di escludere coloro che rientrano nella categoria dei soli conoscenti.
Si continua, quindi, a legiferare attraverso interviste pubbliche e con la tecnica dell’aggettivazione rendendo assolutamente incerto il precetto fino a svuotarlo di contenuto.
Tralasciando la questione relativa alla modifica normativa (dal concetto di “congiunti” a “stabile relazione affettiva”) operata attraverso dichiarazioni televisive, che di per sé rappresenta un abominio giuridico, l’aspetto più rilevante resta quello penale.
Ed invero, nell’autocertificazione dovrà dichiararsi, al fine di giustificare il proprio spostamento, la finalità di incontrare un soggetto cui si è legati da una stabile relazione affettiva. Qualora tale dichiarazione dovesse risultare mendace, in base a criteri non meglio precisati, si incorrerà nel reato di cui all’art. 483 c.p.
L’esecutivo ricorre a concetti liquidi, disperdendo i confini del perimetro della legalità e lasciando all’interprete la facoltà di sanzionare, in quanto mendaci, dichiarazioni di valore in ordine alla stabilità affettiva percepita dal dichiarante.
Tutto ciò premesso si ricorda, tuttavia, che le visite ai congiunti sono consentite nel rispetto di strette limitazioni. Dovrà, infatti, essere rispettato il divieto di assembramento, il distanziamento interpersonale di almeno un metro oltre l’obbligo di utilizzare protezioni per la vie respiratorie.
Gli spostamenti fuori dalla Regione rimangono, invece, vietati, sia con mezzi di trasporto pubblici che privati, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute. Quindi tali spostamenti rimangono disciplinati esattamente come dalla precedente normativa relativa alla c.d. Fase 1.
È stata nuovamente prevista la possibilità di fare rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza. Pertanto, coloro che si trovano “bloccati”, a causa della normativa emergenziale dei precedenti mesi, hanno facoltà di rientrare al proprio domicilio, abitazione o residenza.
Resta ancora vietato lo spostamento verso seconde case o di vacanza.
È nuovamente consentita la possibilità di accedere a parchi, ville e giardini pubblici a condizione che venga mantenuta la distanza interpersonale di un metro e che non si creino assembramenti. Le aree attrezzate per il gioco dei bambini sono chiuse e, dunque, non utilizzabili.
Con riguardo all’attività sportiva e motoria, il dpcm prevede che queste possano essere svolte individualmente (o nel caso di minori o persone non completamente autosufficienti con accompagnatore) e nel rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno due metri per l’attività sportiva e di almeno un metro per ogni altra attività. É stato eliminato il riferimento alla prossimità dalla propria abitazione dunque, tali attività, potranno svolgersi senza alcuna limitazione di spazio purché ciò avvenga individualmente e nel rispetto delle distanze.
Tuttavia, con Ordinanza n. 46 del 29 aprile 2020, il Presidente della Giunta Regionale, ha confinato l’esercizio dell’attività motoria (passeggiate all’aria aperta e bicicletta) al Comune di appartenenza. L’esercizio dell’attività dovrà essere individuale ad eccezione di genitori e figli minori, di accompagnatori di persone non completamente autosufficienti o di residenti nella stessa abitazione. Per questi ultimi non risulta necessario il mantenimento del distanziamento sociale di 1,8 metri.
Inoltre, dispone che tale attività sia svolta “con partenza e rientro alla propria abitazione”, intendendosi evidentemente con tale inciso che tale attività debba iniziare e terminare presso la propria abitazione senza la possibilità di effettuare tappe intermedie finalizzate allo svolgimento di altre attività.
L’Ordinanza non specifica alcunché in relazione all’attività sportiva, rimanendo, quindi, quest’ultima disciplinata da quanto previsto nel dpcm.
La Regione, da ultimo, anticipa il Dpcm rispetto all’entrata in vigore delle disposizioni, considerato che l’Ordinanza avrà validità a partire dal 1 maggio mentre le previsioni del dpcm soltanto dal 4 maggio.

Pisa, 30 aprile 2020

Avv. Andrea Di Giuliomaria

Al fine di ritenere sussistente la responsabilità del datore di lavoro per un infortunio occorso al lavoratore risulta necessario l’accertamento di tutti gli elementi costitutivi del reato colposo.
Ed invero, una volta ritenuto sussistente il nesso di causalità tra condotta ed evento, risulta necessario individuare la regola cautelare violata, accertare la causalità della colpa, la concretizzazione del rischio e l’efficacia del comportamento alternativo lecito. Deve essere dimostrata, infine, l’esigibilità del comportamento conforme alla regola cautelare da parte dell’agente che concretamente si trova ad agire. In particolare, deve accertarsi l’evitabilità e la prevedibilità dell’evento da parte dell’autore tenendo conto delle circostanze presenti nel caso concreto.
E’ possibile pervenire ad un giudizio di responsabilità solo dopo aver accertato la sussistenza del reato in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi.
Nel caso concreto la Suprema Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata ritenendo che non fosse stato operato un accertamento esaustivo in ordine a tutti i profili del reato colposo, ed in particolare, nel caso di specie la prevedibilità ed evitabilità dell’evento, basandosi l’affermazione della responsabilità del datore di lavoro su elementi meramente presuntivi ed assertivi.

Penale Sent. Sez. 4 Num. 9216 Anno 2020
Presidente: FUMU GIACOMO
Relatore: PAVICH GIUSEPPE
Data Udienza: 20/02/2020

 

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
ROMAGNOLI GIULIANO nato a MONTECAROTTO il 17/02/1965
avverso la sentenza del 28/02/2019 della CORTE APPELLO di ANCONA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE PAVICH;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUCA TAMPIERI
che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
udito il difensore
Il difensore presente chiede l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d’appello di Ancona, in data 28 febbraio 2019, ha confermato la  sentenza con la quale, il 18 aprile 2017, il Tribunale di Ancona aveva condannato  Giuliano Romagnoli alla pena ritenuta di giustizia per il reato p. e p. dall’art. 590,  commi 1, 2 e 3 cod.pen., con violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni  sul lavoro, contestato come commesso in Morro d’Alba il 26 agosto 2014.
Il Romagnoli risponde del suddetto reato quale legale rappresentante della Techpol s.r.l. e datore di lavoro di Giacomo Andreoli, operaio dato in  somministrazione dall’agenzia GiGroup quale addetto alle presse. L’Andreoli,  nell’eseguire un’operazione di stampaggio di componenti plastici su una pressa,  posizionava tali componenti sul relativo stampo, introducendo in tale occasione il  braccio sotto la matrice dopo avere aperto il riparo di protezione; prima che  l’Andreoli potesse chiudere tale riparo ed estrarre il braccio, la matrice iniziava a  muoversi e colpiva la mano dell’operaio incastrandola sul punzone e cagionando  le lesioni traumatiche da schiacciamento meglio descritte in atti. In tal modo,  secondo l’addebito, il Romagnoli avrebbe violato in particolare l’art. 71, comma 1,  D.Lgs. n. 81/2008, per avere messo a disposizione dei dipendenti un macchinario  sprovvisto di adeguati sistemi di sicurezza, ossia nella specie di un’adeguata  protezione che impedisse di raggiungere con gli arti la zona pericolosa della
macchina.
Nel rigettare l’appello proposto dall’imputato, confermando la sentenza di  condanna di primo grado, la Corte dorica, accreditando le dichiarazioni rese dal teste Mosca (tecnico della prevenzione), ha affermato che l’infortunio si era  verificato per un malfunzionamento della pressa, cagionato verosimilmente da una  cattiva o non corretta manutenzione del macchinario; non era invece stata fornita  dal Romagnoli la prova del suo assunto, teso a dimostrare che nella specie  l’infortunio si era verificato per caso fortuito; a sostegno di tale assunto la Corte  di merito richiama la deposizione del teste a discarico Aureli, tecnico della  manutenzione dei macchinari, il quale aveva ammesso che la macchina funzionava  quando ancora il riparo non era completamente chiuso. Sono state disattese dalla  Corte territoriale anche le ulteriori argomentazioni difensive relative al  comportamento della persona offesa, che secondo l’appellante doveva giudicarsi  come abnorme (in quanto l’Andreoli era stato adeguatamente formato e informato  dei rischi connessi all’operazione, ma aveva disatteso le istruzioni a lui impartite),  a fronte del fatto che le prove raccolte — ed in specie la testimonianza della persona offesa – non consentono di ravvisare alcuna abnormità.

2. Avverso la prefata sentenza ricorre il Romagnoli, deducendo due motivi di  lagnanza.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di  motivazione in ordine alla responsabilità dell’imputato, sotto diversi profili. Dopo  avere ribadito che l’Andreoli, in occasione dell’infortunio, aveva violato la  procedura prevista per l’operazione di stampaggio su pressa, il deducente  evidenzia come la Corte di merito abbia mal interpretato le dichiarazioni del teste  Mosca, secondo il quale l’infortunio si era bensì verificato per un malfunzionamento  della macchina, ma quest’ultimo – secondo il teste – non era necessariamente  correlato a una carenza nella manutenzione del macchinario stesso, potendo  essere legato a difetti tecnici, o a una svista, o ad altre cause rimaste imprecisate.  A fronte di siffatta incertezza sulle cause dell’incidente, dovevano essere prese in  considerazione le dichiarazioni del teste a discarico Aureli, responsabile della  manutenzione delle macchine, che secondo quanto da lui affermato veniva puntualmente eseguita; peraltro tali dichiarazioni sono confermate dalla scheda manutenzioni relativa alla pressa, in base alla quale risulta che la manutenzione veniva eseguita settimanalmente e addirittura era stata effettuata il giorno prima dell’incidente. Non si vede allora a che titolo, prosegue il ricorrente, il Romagnoli debba essere chiamato a rispondere dell’accaduto per negligenza, imprudenza o imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Il deducente conclude pertanto che l’accaduto si era verificato per un caso fortuito, o comunque per una causa non prevedibile da parte dell’imputato: il teste a discarico Pacholel, il quale aveva spesso operato su quella macchina (e delle cui dichiarazioni la Corte dorica non ha tenuto alcun conto), ha tra l’altro negato di essersi mai accorto del malfunzionamento di che trattasi, ed anzi la macchina a suo dire partiva sempre circa un secondo dopo la chiusura della protezione. Inopinatamente, la Corte di merito ha invece ritenuto attendibile la persona offesa, la quale pure aveva cambiato versione dei fatti nel corso del tempo in ordine alla dinamica dell’accaduto. In definitiva, conclude il ricorrente, il Romagnoli é stato condannato in base a un convincimento che ha posto a suo carico una sorta di responsabilità oggettiva dell’accaduto.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento al comportamento colpevole del lavoratore nella causazione del sinistro: comportamento che la Corte dorica ha ritenuto esente da colpe, sebbene sia stato accertato (attraverso la deposizione del teste Zare Souleymane) che egli aveva ricevuto le dovute istruzioni sul funzionamento e sulle procedure relative alla pressa. Secondo il deducente, si è al cospetto di un comportamento abnorme del lavoratore, in quanto del tutto imprevedibile e insuscettibile di controllo da parte del datore di lavoro.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso é fondato e assorbente.  E’ noto che, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto. Il principio, affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv. 261106), é stato fra l’altro richiamato in relazione a una fattispecie (Sez. 4, n. 33749 del 04/05/2017, Ghelfi, Rv. 271052) in cui la S.C. ha ritenuto logicamente fallace, perché espressione di un ragionamento “circolatorio”, la ricostruzione del nesso causale tra la condotta del datore di lavoro, consistita nell’omessa manutenzione di una macchina stampatrice, e le lesioni gravi da schiacciamento della mano occorse al lavoratore intento alla manutenzione determinate dal mancato azionamento del microinterruttore di blocco della rotazione del rullo portacliché, per effetto della rottura della linguetta metallica di attivazione, non avendo il giudice di merito chiarito le ragioni di tale rottura, la tipologia degli interventi di manutenzione omessi e se la loro esecuzione sarebbe stata in grado di evitare il malfunzionamento del dispositivo di sicurezza.
Il caso, per certi versi simile a quello che ne occupa, suggerisce tuttavia una verifica che si estenda dal profilon squisitamente causale – mercé l’indagine sul giudizio controfattuale e sul comportamento alternativo che ci si doveva attendere dal Romagnoli – alla stessa conoscibilità, prevedibilità ex ante e prevenibilità del rischio da parte dell’imputato, passando per le peculiarità che caratterizzano il caso di specie.
Orbene, riassuntivamente, la Corte dorica articola al riguardo una motivazione affatto carente, in quanto perviene apoditticamente all’affermazione di responsabilità del Romagnoli attraverso i seguenti tre passaggi: l’infortunio si é verificato per un malfunzionamento del macchinario; il malfunzionamento era dovuto a cattiva manutenzione della macchina; la cattiva manutenzione della macchina era, come tale, imputabile al datore di lavoro, ossia al Romagnoli.
Tuttavia, dei suddetti tre passaggi, solo il primo risulta univocamente accertato, essendo certo e incontestato che il difetto insito nel macchinario (che si metteva in movimento prima che lo sportellino di protezione si chiudesse) rappresentasse oggettivamente uno scostamento rispetto alle corrette modalità di funzionamento di tale dispositivo di sicurezza, che avrebbe dovuto consentire che la macchina si mettesse in movimento solo dopo la chiusura dello sportellino.
Sul fatto che tale malfunzionamento fosse dovuto a manutenzione, l’assunto della Corte distrettuale é assertivo, ma risulta contrastato dal contenuto della deposizione del teste di riferimento (Mosca, tecnico della prevenzione): il quale, come correttamente osservato dal ricorrente, ha individuato la carenza di manutenzione come una tra le possibili cause del difetto, ma non come la causa esclusiva. Ed é corretto il ragionamento del ricorrente secondo il quale la Corte dorica si sarebbe dovuta confrontare con i dati offerti dal teste a discarico Aureli sulla regolarità delle manutenzioni del macchinario, dati riscontrati dalla scheda di manutenzione della macchina, in base alla quale risulta che addirittura la manutenzione venne effettuata anche il giorno prima.
Ma, anche volendo ipotizzare che effettivamente vi fosse stato un difetto di manutenzione tale da impedire che venisse corretto il malfunzionamento del dispositivo di sicurezza, occorrerebbe poi – e siamo al terzo passaggio – accertare che di tale difetto di manutenzione debba rispondere il datore di lavoro. Per far ciò occorrerebbe però verificare se le eventuali carenze nella manutenzione del macchinario fossero conosciute o conoscibili da parte del Romagnoli, nella sua qualità datoriale.
Orbene, al riguardo la Corte territoriale nulla dice, contentandosi di porre a carico dell’imputato il difetto di manutenzione in quanto condotta omissiva ascrivibile al datore di lavoro. Eppure, risulta che egli avesse designato un responsabile per la manutenzione delle macchine (nella persona dell’Aureli, chiamato a deporre come teste a discarico) e che fosse disponibile una scheda manutenzione indicante che tale operazione veniva eseguita con frequenza settimanale; non risulta, viceversa, che l’inconveniente al dispositivo di sicurezza alla base dell’infortunio si fosse mai precedentemente verificato.
Ora, non è esatto evocare nel caso di specie l’ipotesi del “caso fortuito”, che appresenta il fatto, imprevisto e imprevedibile, estraneo a ogni possibile riferibilità soggettiva; così come non é neppure corretto evocare il comportamento “abnorme” della persona offesa, alla luce del principio, affermato dalla sentenza a Sezioni Unite n. 38343/2014 (Espenhahn ed altri, c.d. sentenza Thyssenkrupp), in base al quale, in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, é necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (negli stessi termini vds. anche Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016 – dep. 2017, Gerosa e altri, Rv. 269603; cfr. in termini sostanzialmente identici Sez. 4, n. 15174 del 13/12/2017 – dep. 2018, Spina e altro, Rv. 273247); a fronte di ciò, é di tutta evidenza che nell’ambito di tale sfera di rischio rientrava anche la circostanza che l’operatore, nell’inserire gli elementi in plastica sotto la pressa, posizionasse la mano e il braccio all’interno di macchinari pericolosi.
Ma, a parte tali profili, resta il fatto che la Corte dorica non ha argomentato, ma ha meramente asserito, che il presunto – e non dimostrato – difetto di manutenzione fosse tale da conclamare la responsabilità datoriale, senza alcuna disamina in ordine alla conoscibilità di tale difetto e, conseguentemente, alla concreta prevedibilità ex ante,da parte dell’odierno ricorrente, del verificarsi di un infortunio del tipo di quello occorso alla persona offesa, nonché alla possibilità di disporre un apposito intervento per prevenire ed evitare simili eventi, in presenza di compiti di manutenzione che risultavano comunque affidati a soggetto fiduciario appositamente individuato (l’Aureli) ed assolti con la dovuta frequenza; e non essendo emersi precedenti, analoghi episodi di malfunzionamento.

2. La sentenza impugnata va perciò annullata con rinvio alla Corte d’appello di Perugia per nuovo giudizio, nel quale la predetta Corte si atterrà ai principi dianzi ricordati.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte d’appello
di Perugia.
Così deciso in Roma il 20 febbraio 2020.

avvocato di giuliomaria

ORDINANZA PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE DEL 6 APRILE 2020:

DISTRIBUZIONE E OBBLIGATORIETA’ DELLE MASCHERINE

Con ordinanza n. 26 del 06 aprile 2020, la Regione Toscana ha reso obbligatorio l’utilizzo della mascherina monouso per i tutti i soggetti di età superiore ai 6 anni, fatta eccezione per le persone che non ne tollerino l’utilizzo a causa di certificate condizioni psicofisiche. La certificazione deve essere rilasciata dal medico di medicina generale o dal pediatra in caso di minori.
L’obbligo della mascherina ricorre in tutti gli spazi chiusi pubblici e privati aperti al pubblico nel caso in cui si registri la presenza di più persone; nonché nei mezzi di trasporto pubblico locale, nei servizi non di linea taxi e noleggio con conducente.
L’utilizzo della mascherina è, altresì, obbligatorio negli spazi aperti pubblici o, comunque, aperti al pubblico quando in presenza di più persone è obbligatorio mantenere il distanziamento di un metro.
L’Ordinanza dispone, inoltre, che ciascun Comune della Regione provveda, a mezzo della Protezione Civile, alla distribuzione delle mascherine ai nuclei familiari in ragione del numero dei componenti dello stesso.
L’Ordinanza prevede un doppio criterio temporale di entrata in vigore:
a) dalla data di esaurimento dell’attività di distribuzione delle mascherine, previa pubblicazione della decorrenza sul sito istituzionale di ciascun Comune nonché tramite gli ordinari canali di comunicazione della Protezione Civile;
b) per tutti i Comuni, comunque, a decorrere dal settimo giorno dalla data di adozione dell’ordinanza stessa, ovvero il 13 aprile 2020.
L’Ordinanza in commento, a seguito dell’entrata in vigore del Dpcm 10 aprile 2020, ha validità fino al 3 maggio 2020. Infatti, nelle disposizioni finali è previsto che la stessa rimanga in vigore fino alla vigenza delle misure adottate ai sensi dell’art. 1, comma 2 del D.L. 19/20 ad oggi prorogate con il Dpcm suddetto.
Si fanno salve, comunque, eventuali modifiche o integrazioni dovute alla mutazione del quadro epidemiologico o ad eventuali nuove disposizioni legislative o amministrative.
La violazione dell’obbligo di utilizzo della mascherina nelle ipotesi sopra indicate, integra la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 ad euro 3000.
Resta inteso, ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. e) del D.L. 19/20, il divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora (con o senza mascherina) per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus, la cui violazione e’ punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, Testo unico delle leggi sanitarie.
L’Ordinanza in commento lascia non pochi dubbi interpretativi in ordine all’obbligo di utilizzo della mascherina nei luoghi aperti pubblici solo quando “in presenza di più persone, è obbligatorio il mantenimento della distanza sociale”. Si prevede, quindi, un obbligo che scatta a fronte del realizzarsi di un’ipotesi non governabile dal
soggetto obbligato. Non è dato sapere, infatti, quale siano le ipotesi in cui si possa effettuare uno spostamento in luogo aperto pubblico o aperto al pubblico ( si pensi a titolo di esempio, ad una strada pubblica percorsa per raggiungere un dato esercizio commerciale), senza indossare la mascherina, posto che non è possibile conoscere, preventivamente, se e quanti soggetti si incontreranno lungo il percorso.
Sarebbe stata, forse, preferibile una formulazione più netta e incisiva del precetto che rendesse, in ogni caso, obbligatorio l’utilizzo della mascherina al fine di eliminare ab origine dubbi interpretativi.
A fronte di queste incertezze si consiglia di uscire di casa indossando precauzionalmente la protezione, al fine di evitare di incorrere in eventuali sanzioni a causa della diversa interpretazione che il singolo accertatore potrebbe dare della disposizione.

Pisa, 11 aprile 2020

Avv. Andrea Di Giuliomaria

 

avvocato di giuliomaria

CONTAGIO DA COVID-19 NEI LUOGHI DI LAVORO.

OBBLIGHI E RESPONSABILITA’ PENALE DEL DATORE DI LAVORO

L’emergenza sanitaria in atto pone importanti problematiche sul piano della prevenzione dei rischi nei luoghi di lavoro, con particolare riferimento alla tutela della salute dei lavoratori e ai corrispondenti obblighi e responsabilità dell’imprenditore.
Le aziende si trovano di fronte alla difficile gestione del rischio di contagio intraziendale da Covid-19. Tale situazione riguarda tanto le aziende oggi operative – perché attive nei settori individuati come essenziali o perché rientranti nella categoria delle c.d filiere essenziali – quanto quelle che dovranno riprendere – si spera in un futuro molto prossimo – la loro attività.
La complessità della problematica impedisce il ricorso agli strumenti classici della gestione della sicurezza sul luogo di lavoro attraverso le ordinarie figure professionali a ciò preposte.
Ed invero, il rischio di contagio da Covid-19 è stato qualificato come un rischio biologico ambientale che va a coinvolgere qualunque luogo – lavorativo e non – che implichi la concentrazione di più persone. Pertanto, si traduce in un rischio estraneo all’attività lavorativa, muovendo da fattori esterni non direttamente governabili dal datore di lavoro in quanto presente in tutti i contesti sociali.
Possiamo, quindi, trarre una prima conclusione rispetto alle premesse fatte: la natura di rischio generico esclude che il datore di lavoro debba aggiornare o integrare il Documento di valutazione dei rischi (DVR), il quale rappresenta – in base al D. Lvo. 81/2008 (TU salute e sicurezza) – lo strumento preposto alla prevenzione dei rischi endogeni, ovvero direttamente connessi alla attività lavorativa posta in essere.
L’assenza di un obbligo di integrazione, tuttavia, non esime il datore di lavoro dal tutelare la salute dei propri dipendenti e dall’attivarsi al fine di contenere il rischio da contagio.

Sul datore di lavoro, infatti, grava una posizione di garanzia in ordine a tutti i rischi – siano essi connessi all’attività lavorativa o scaturenti da fattori esterni ed estranei al processo produttivo – che trova la sua fonte normativa nell’art. 2087 del codice civile a norma del quale: “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
La posizione di garanzia espone il datore di lavoro – nel caso in cui questi non si sia attivato o lo abbia fatto in maniera insufficiente e si sia verificato un caso di contagio intraziendale – alla possibile contestazione di reati quali le lesioni colpose o, nei casi più gravi, l’omicidio colposo.
L’imprenditore, quindi, dovrà attivarsi al fine di contenere il rischio di contagio nell’area del c.d. rischio consentito, vale a dire assicurare ai propri lavoratori di operare in un contesto che garantisca un livello di sicurezza quantomeno pari a quello esterno.
Il Governo, di concerto con le associazioni di categoria, in data 14 marzo 2020, ha redatto e sottoscritto un Protocollo recante la “regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro non sanitari”.
Il Protocollo rappresenta un indispensabile strumento per il datore di lavoro in quanto fornisce le linee guida necessarie per la predisposizione delle misure atte a contenere il rischio epidemiologico, esonerandolo, in ambito civilistico, dalla prova diabolica di aver fatto tutto quanto necessario a garantire la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, così come richiesta dal paradigma normativo generale di cui all’art. 2087 c.c., già citato.
Tuttavia, non esime lo stesso dall’adottare ulteriori precauzioni nel caso in cui la concreta e specifica organizzazione aziendale lo richieda.
La condotta attiva richiesta al datore di lavoro non è di facile realizzazione. L’adeguamento al Protocollo, infatti, investe ambiti eterogenei che andranno regolamentati bilanciando tutti i diritti e le esigenze presenti nella realtà aziendale.

Sarà, quindi, necessario predisporre le misure necessarie a prevenire il rischio di contagio da Covid-19 così da tutelare la salute dei lavoratori e scongiurare possibili contestazioni di natura penale, il tutto garantendo, comunque, la produttività, le dinamiche aziendali, i diritti dei lavoratori. Infatti, un Protocollo estremamente rigido che non tenga conto delle specificità dell’azienda, potrebbe risolversi in una sostanziale paralisi dell’attività produttiva e determinare la lesione dei diritti dei lavoratori contenuti nei contratti individuali e collettivi.
Di qui, la necessità del coinvolgimento di più professionisti specializzati in diversi settori.
L’adeguamento al Protocollo, affinché persegua tanto l’obiettivo di tutelare la salute dei lavoratori quanto quello di scongiurare il rischio di una contestazione penale, deve essere procedimentalizzato avendo in considerazione le caratteristiche della singola realtà aziendale interessata, creando modelli organizzativi ad hoc capaci di garantirne efficacia, rispetto e controllo. La necessità di tracciare gli interventi posti in essere è stata richiamata anche dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro che in una nota ha fatto esplicito riferimento all’importanza di “formalizzare l’azione del datore di lavoro con atti che diano conto dell’attenzione posta al problema in termini di misure, comunque adottate ed adottabili dal punto di vista tecnico, organizzativo e procedurale, nonché dei DPI ritenuti necessari, in attuazione delle indicazioni nazionali, regionali e locali delle istituzioni a ciò preposte”.
Un Protocollo “cucito” sulle peculiarità della singola azienda – il cui rispetto sia garantito dagli organi interni debitamente costituiti – riduce, indubbiamente, il rischio penale. Infatti, l’adozione scrupolosa di un Protocollo ad hoc rappresenta un notevole ostacolo per la costruzione di una contestazione penale, rispetto alla quale la Pubblica Accusa, oltre a dimostrare che il contagio si sia verificato in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa dovrà, altresì, provare che lo stesso abbia avuto origine da una “falla” nella procedura adottata.

L’eterogeneità e complessità delle criticità sopra richiamate escludono la possibilità di approcciarsi alla problematica con superficialità (veicolando, a titolo esemplificativo, alcune regole attraverso mere comunicazioni interne) o di avvalersi, esclusivamente delle canoniche figure di riferimento, necessitando, al contrario, la sinergia di più competenze capaci di sintetizzare in un unico documento tutti i profili di interesse.
Da ultimo, l’eccezionalità della situazione unita alla assoluta assenza di precedenti fa sì che, anche dopo la predisposizione dei modelli, l’imprenditore necessiti di un continuo confronto con i professionisti, al fine di ponderare al meglio le singole determinazioni a fronte di una infinita casistica di possibili evenienze che possono darsi nella concreta gestione della vita aziendale.

Pisa, 9 aprile 2020

Avv. Andrea Di Giuliomaria

Il presente contributo ripercorre le modifiche introdotte con la riforma del diritto penale tributario operata con il decreto legge 26 ottobre 2019, n. 124, così come convertito in legge con modificazioni dalla legge 19 dicembre 2019, n. 157, il quale, da un lato, ha riformato il testo del D. Lvo. 10 marzo 2000, n. 74, modificando la disciplina relativa a talune fattispecie penali tributarie ed estendendo l’applicabilità ad alcuni reati tributari della c.d. confisca “allargata”, dall’altro, ha inserito un nuovo articolo nel D. Lvo. 8 giugno 2001, n. 231, aggiungendo alcuni reati tributari al catalogo dei reati presupposto della responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato.

La legge 19 dicembre 2019, n. 157 ha convertito in legge, con modificazioni, il decreto legge 26 ottobre 2019, n. 124 il quale – nell’ambito di un intervento di più ampio respiro in materia fiscale di contrasto all’evasione – con l’art. 39 ha introdotto modifiche alla disciplina penale in materia tributaria e ha inserito alcuni reati tributari nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato.
La riforma del diritto penale tributario è stata operata, in primis, attraverso un intervento sul testo del D. Lvo. 10 marzo 2000, n. 74 caratterizzato in generale da maggiore severità nella repressione dell’illecito tributario. In particolare, l’intervento è stato operato attraverso l’aumento delle pene edittali, minime e massime, di alcuni reati tributari, l’abbassamento di alcune soglie di rilevanza penale, l’estensione della confisca “allargata” di cui all’art. 240 bis c. p. ad alcuni reati tributari.
Ed invero, molteplici le fattispecie tributarie oggetto di intervento.
La riforma del diritto penale tributario ha riguardato, in primo luogo, l’articolo 2 del D. Lvo. 74/2000 concernente il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
La fattispecie in esame punisce “chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi”.
Il secondo comma della norma precisa che, affinché venga integrato il reato, le fatture o gli altri documenti per operazioni inesistenti devono essere registrati nelle scritture contabili obbligatorie o detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria.
La norma non prevede soglie di rilevanza penale del fatto.
Il legislatore è intervenuto, in primis, sulla cornice edittale della pena prevista, che è passata dalla reclusione da un anno e sei mesi a sei anni alla reclusione da quattro a otto anni. Ad un aggravamento della risposta sanzionatoria ha corrisposto l’introduzione – con il nuovo comma 2bis – di una soglia di rilevanza penale al di sotto della quale la fattispecie è considerata di minore gravità. In particolare, qualora l’ammontare degli elementi passivi fittizi sia inferiore ad euro centomila la pena prevista è quella pre-riforma della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni. Soltanto le applicazioni giurisprudenziali chiariranno se tale previsione abbia introdotto una circostanza attenuante oppure una fattispecie autonoma di reato, sussistendo a sostegno di entrambe le tesi argomentazioni fondate e giuridicamente sostenibili.
La riforma del diritto penale tributario, ha riguardato poi il successivo articolo 3 del D. Lvo. 74/2000 – concernente il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici.
Tale disposizione, facendo salva l’applicazione dell’art. 2, punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi, quando, congiuntamente, ricorrono le condizioni previste dalla norma ed il superamento delle relative soglie di punibilità.
Anche qui, ai fini dell’integrazione del reato, i documenti falsi devono essere registrati nelle scritture contabili obbligatorie o detenuti a fini di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria.
L’intervento legislativo ha riguardato anche per tale fattispecie l’inasprimento della risposta sanzionatoria portando la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni alla reclusione da tre a otto anni.
Deve aggiungersi, con riferimento alle fattispecie appena esaminate, che la riforma del diritto penale tributario ha, inoltre, modificato l’art. 13, comma 2 estendendo alle stesse la causa di non punibilità ivi prevista. In particolare, i reati di cui agli artt. 2 e 3 (al pari dei reati di cui agli artt. 4 e 5 già previsti dal comma 2 dell’art. 13) non sono punibili se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.
La modifica dell’art. 13 – e, dunque, l’inserimento nello stesso delle fattispecie di cui agli artt. 2 e 3 del decreto tra i reati non punibili nel caso di integrale pagamento del debito tributario – ha inciso indirettamente anche sulla disciplina di accesso al c.d. patteggiamento di cui all’art. 13 bis, comma 2 del decreto per i reati in questione.
Ed invero, tanto la causa di non punibilità quanto l’accesso al rito del c.d. patteggiamento vedono quale loro presupposto l’integrale pagamento del debito tributario. Al fine di evitare una contraddizione interna del sistema, la giurisprudenza è intervenuta nel tempo per chiarire il discrimen operativo delle due norme, problematica che in seguito alla riforma in commento si pone anche in relazione ai reati di cui agli artt. 2 e 3 del decreto. Orbene, può ritenersi – salvo mutamenti interpretativi post riforma – che l’indirizzo ormai accolto dalla giurisprudenza in relazione agli artt. 4 e 5 già previsti dall’art. 13, comma 2, possa ritenersi applicabile anche alle nuove fattispecie di cui agli artt. 2 e 3 oggetto di ultima introduzione nella norma (sul punto cfr. Cass. Pen., sez. III, 2 ottobre 2019, n. 47287).
La riforma del diritto penale tributario ha interessato, poi, l’articolo 4 del D.Lvo. 74/2000 disciplinante il delitto di dichiarazione infedele. Tale fattispecie – facendo salva l’applicazione dei precedenti artt. 2 e 3 del medesimo decreto – punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando congiuntamente ricorrono le condizioni previste dalla norma e vengono superate le soglie di rilevanza penale ivi indicate.
Il legislatore ha riformato tale fattispecie, in primis, mediante l’aggravamento della pena edittale, che è passata dalla reclusione da uno a tre anni alla reclusione da due a quattro anni e sei mesi.
Inoltre – con l’effetto di anticipare la tutela penale dell’illecito fiscale – l’intervento riformatore ha abbassato le soglie di punibilità superate le quali la condotta assume rilevanza penale. In particolare, al comma 1 lettera a) della norma in commento, l’ammontare dell’imposta evasa, superata la quale il comportamento diviene penalmente rilevante, è passata da euro 150.000 ad euro 100.000; quanto alla lettera b) del medesimo comma, l’ammontare degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, deve essere superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, superiore ad euro due milioni, contro gli euro tre milioni precedentemente previsti.
Infine, il legislatore ha mantenuto la causa di non punibilità prevista dal comma 1 ter del medesimo articolo, restringendo, tuttavia, la sua operatività alla condizione che le valutazioni “complessivamente” considerate – e non più “singolarmente” come previsto dal testo previgente – differiscono in misura inferiore al 10% da quelle corrette. Si considera, dunque, al fine dell’irrilevanza penale l’effetto congiunto delle singole valutazioni scorrette.
La riforma del diritto penale tributario ha modificato, inoltre, il delitto di omessa dichiarazione di cui all’articolo 5 del D. Lvo. 74/2000. Tale disposizione punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l’imposta evasa è superiore con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro 50.000. Tale delitto risulta integrato anche dall’omessa presentazione della dichiarazione da parte del sostituto di imposta quando l’ammontare delle ritenute non versate è superiore ad euro 50.000.
Il legislatore è intervenuto in senso repressivo attraverso l’aumento della pena edittale – tanto per l’omessa dichiarazione del contribuente quanto per quella del sostituto di imposta – che è passata dalla reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni alla reclusione da due a cinque anni.
La riforma del diritto penale tributario è poi intervenuta sull’articolo 8 del D. Lvo. 74/2000, che punisce chiunque, al fine di consentire a terzi delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
L’articolo 8 trova il suo corrispondente nell’art. 2 del medesimo decreto, norme che puniscono rispettivamente la condotta di chi emette la fattura o altro documento per operazioni inesistenti e quella di chi la utilizza nella propria dichiarazione. In relazione a tali fattispecie, la regola generale fissata dall’articolo 110 c.p. in tema di concorso di persone nel reato, trova deroga nell’art. 9 del decreto, che esclude la rilevanza penale del concorso dell’utilizzatore nelle condotte del diverso soggetto emittente e viceversa.
Proprio quali facce della stessa medaglia, il legislatore ha modificato l’art. 8 in modo del tutto identico rispetto al corrispondete art. 2 del medesimo decreto.
Ed invero, è stata inasprita la risposta sanzionatoria elevando la pena prevista da un anno e sei mesi a sei anni alla reclusione da quattro a otto.
Allo stesso modo ad una maggiore risposta sanzionatoria ha corrisposto l’introduzione di una soglia di punibilità al di sotto della quale il reato è considerato meno grave. Ed invero, il nuovo comma 2 bis dell’art. 8 prevede che se l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d’imposta, è inferiore ad euro 100.000 si applica la pena previgente della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.
Vale anche per tale fattispecie la considerazione operata circa il dubbio dell’introduzione di una circostanza attenuante o di una fattispecie autonoma di reato.
La riforma è, infine, intervenuta sul delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili di cui all’articolo 10 del D. Lvo. 74/2000. Tale fattispecie punisce chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge tutto in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari.
In relazione a tale delitto il legislatore ha previsto l’aumento della pena dalla precedente reclusione da un anno e sei mesi a sei anni alla reclusione da tre a sette anni.
Tutti gli interventi di riforma finora esposti – così come quelli concernenti la responsabilità amministrativa degli enti che vedremo in seguito – hanno efficacia dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della legge di conversione. Siamo di fronte, dunque, ad un decreto legge ad efficacia temporale differita, il quale – non producendo effetti immediati nell’ordinamento – si pone probabilmente in contrasto con i presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77 Cost. Non si pone, tuttavia, in tal modo alcuna questione intertemporale con riguardo alla successione tra decreto-legge e legge di conversione.
Aspetto particolarmente rilevante della riforma del diritto penale tributario concerne l’estensione della confisca “allargata” anche a taluni reati tributari.
Ed invero, l’istituto della confisca era già stato introdotto nel testo del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 con la riforma operata con il D. Lvo. 24 settembre 2015, n. 158, che aveva disciplinato la confisca con riferimento ai reati tributari – precedentemente contenuta nella legge finanziaria per il 2008 che operava un rinvio all’art. 322-ter c.p. – nel nuovo art. 12 bis. La norma prevede che nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p., è sempre ordinata la confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo, salvo il caso che appartengano a persona estranea al reato (c.d. confisca diretta) ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, nella disponibilità del reo, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto (c.d. confisca per equivalente).
La riforma del diritto penale tributario in esame ha esteso ai reati tributari anche la confisca “in casi particolari” o “allargata” – introdotta originariamente nel sistema normativo per far fronte a reati di una certa gravità idonei a creare una accumulazione di ricchezza illecita con successivo possibile reimpiego – misura di maggiore efficacia in quanto sganciata dalla dimostrazione di un nesso di strumentalità tra beni e reato.
Il nuovo articolo 12 ter prevede che, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell’art. 444 c.p.p., per alcuni delitti indicati nella medesima norma, si applica l’art. 240-bis c.p., il quale, a sua volta, prevede la confisca di denaro, beni o altre utilità di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al reddito dichiarato o alla propria attività economica.
L’applicazione della confisca “allargata” concerne solo talune fattispecie penal-tributarie opera solo in seguito al superamento di determinate soglie. In particolare:

  • nel caso del delitto di cui all’art. 2 del decreto, quando l’ammontare degli elementi passivi fittizi è superiore ad euro duecentomila;
  • nel caso del delitto di cui all’art. 3 del decreto, quando l’imposta evasa è superiore ad euro centomila;
  • nel caso del delitto di cui all’art. 8 del decreto, quando l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti è superiore ad euro duecentomila;
  • nel caso del delitto di cui all’art. 11, comma 1 del decreto, quando l’ammontare delle imposte, sanzioni e degli interessi è superiore ad euro centomila;
  • nel caso del delitto di cui all’art. 11, comma 2 del decreto, quando l’ammontare degli elementi attivi inferiori a quelli effettivi o degli elementi passivi fittizi è superiore ad euro duecentomila.

Il legislatore, inoltre, ha precisato che le disposizioni relative alla confisca si applicano esclusivamente alle condotte poste in essere successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto.
Tale precisazione ha la funzione di derogare alla disciplina ordinaria concernente le misure di sicurezza, così qualificata la confisca dalla giurisprudenza. Ed invero, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che il principio di irretroattività non valga per le misure di sicurezza, in virtù del combinato disposto degli artt. 25, comma 3 Cost., 199 e 200 c.p. In particolare, l’art. 200 c.p. dispone che le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione (principio tempus regit actum). Secondo la giurisprudenza, dunque, le misure di sicurezza possono trovare applicazione anche con riferimento a reati commessi antecedentemente alla previsione per gli stessi della possibile applicazione di una misura di sicurezza.
Dunque, la norma intertemporale contenuta nell’art. 12 ter, comma 1bis del decreto, è intervenuta proprio in deroga alla disciplina legislativa generale ed alla relativa interpretazione giurisprudenziale, disponendo che la confisca allargata in materia di reati tributari potrà essere disposta solo in relazione a reati commessi dopo l’entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge.
La riforma del diritto penale tributario ha, infine, modificato il testo del D. Lvo. 8 giugno 2001, n. 231 inserendo, con il nuovo articolo 25-quinquiesdecies, alcuni reati tributari tra i reati presupposto della responsabilità degli enti dipendente da reato con conseguente applicazione delle relative sanzioni pecuniarie.
Dunque, la commissione di un reato tributario comporta l’irrogazione nei confronti dell’ente di una sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote, per i delitti di cui agli artt. 2, comma 1, 3 e 8, comma 1D. Lvo. 74/2000 e fino a quattrocento quote, per i delitti di cui agli artt. 2, comma 2bis, 8, comma 2bis, 10 e 11 del medesimo decreto.
Qualora in seguito alla commissione dei delitti indicati l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo.
Nei casi indicati sono, inoltre, applicate agli enti le sanzioni interdittive previste dall’art. 9, comma 2, lett. c), d) ed e) del D. Lvo. 231/2001, vale a dire il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio, l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi ed, infine, il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Avv. Andrea Di Giuliomaria                                       Avv. Silvia Dello Sbarba

avvocato di giuliomaria

JOGGING: DIETROFRONT DEL VIMINALE

Con un tweet pubblicato sull’account ufficiale, il Viminale ha affermato che è consentita l’attività sportiva (jogging) e l’attività motoria (camminata) nei pressi della propria abitazione, operando un evidente dietrofront rispetto a quanto specificato nella circolare del Ministero dell’Interno del 31 marzo 2020. Pertanto, sono consentiti tanto la camminata quanto il jogging. Permane il dubbio su cosa debba intendersi con l’indicazione “nei pressi della propria abitazione”.

Pisa, 3 aprile 2020

Avv. Andrea Di Giuliomaria

L’emergenza sanitaria in atto presenta importanti risvolti anche sul piano della prevenzione dei rischi nell’ambiente lavorativo ed, in particolare, con riguardo alla tutela della salute dei lavoratori e ai corrispondenti obblighi e responsabilità del datore di lavoro.
II rischio di contagio da Covid-19, infatti, costituisce un rischio ambientale che riguarda l’intera popolazione ed ogni contesto sociale e, dunque, anche quello lavorativo, in quanto anche i luoghi di lavoro – posta la concentrazione di più persone nel medesimo luogo – rappresentano una delle principali occasioni di trasmissione del virus.
Vi è da chiedersi, quindi, se ed in quale misura, rispetto a questa nuova e sconosciuta pandemia, il datore di lavoro – quale soggetto che ricopre sempre una posizione di garanzia a tutela dei propri dipendenti per ogni rischio connesso all’organizzazione del lavoro ed alle mansioni in concreto affidate ai singoli lavoratori – debba implementare le azioni volte a scongiurare il contagio e la diffusione del virus all’interno della popolazione aziendale.
Il problema si pone, oggi, per le aziende che operano nei settori c.d. essenziali che continuano ad essere operative, ma riguarderà – si auspica – nel prossimo futuro, anche le realtà economiche oggi sospese che, più o meno gradualmente, riprenderanno la propria attività.
Il quesito trova risposta nell’art. 2087 del codice civile a norma del quale: “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Si tratta di norma di portata generale e di chiusura del sistema prevenzionistico che, a mente della ormai consolidata giurisprudenza, impone al datore di lavoro di farsi garante dell’incolumità del lavoratore, prevedendo in capo al medesimo un generale dovere di sicurezza. Il datore di lavoro, dunque, dovrà predisporre le misure idonee a prevenire tutti i rischi connessi all’attività lavorativa anche quelli derivanti da fattori esterni ed estranei al processo produttivo.
Si può, dunque, affermare che è indubbio che sul datore di lavoro gravi una posizione di garanzia anche in ordine al rischio di contagio da Covid-19.
L’eccezionalità della situazione contingente, l’elevato grado di diffusione, la probabilità di dover ricorrere a cure ospedaliere (in un numero che “intaserebbe” – o meglio – che ha già “intasato” l’intero sistema sanitario), nonché il tasso di mortalità, hanno indotto – come noto – il Governo ad imporre ai consociati determinati comportamenti e ad adottare specifiche misure di prevenzione.
Ebbene, il buon senso prima, il diritto poi, impongono che l’ambiente di lavoro non possa rappresentare una zona franca, ovvero un luogo ove il rischio di contagio sia superiore a quello socialmente accettato.
Ne consegue che se è pur vero che il rischio di contagio da Covid-19 non rientri tra quelli “controllabili” dal datore di lavoro è, altresì, vero, che questi, deve garantire ai propri lavoratori di operare in un contesto che garantisca un livello di sicurezza quantomeno pari a quello esterno.
Il datore di lavoro dovrà, dunque, approntare tutte le misure e i dispositivi di sicurezza necessari a ricondurre e contenere il rischio da contagio all’interno dalla c.d categoria del “rischio consentito”.
Quindi, la posizione di garanzia in capo al datore di lavoro si rinviene nel codice civile e la categoria del rischio consentito ne delimita i confini, superati i quali null’altro può essere preteso dal datore di lavoro.
In tale contesto, si è posto l’ulteriore interrogativo se sussista o meno l’obbligo per il datore di lavoro di aggiornare il Documento di valutazione dei rischi (DVR) in seguito all’insorgenza dell’emergenza sanitaria in atto, posto che la mancata adozione/aggiornamento del documento in parola è sanzionata da fattispecie penali contravvenzionali previste dal Testo Unico 81/2008 (di seguito indicato come Testo Unico salute e sicurezza).
Ed invero, il Covid-19 è stato qualificato quale rischio di natura biologica generico. Per rischio generico si intende quel rischio non connaturato all’attività lavorativa stricto sensu intesa, ma derivante da fattori esterni non governabili dal datore di lavoro e presente in tutti i contesti sociali, lavorativi e non. A tale rischio, dunque, il lavoratore è esposto tanto nel luogo di lavoro quanto in qualsiasi altro contesto sociale che determini il contatto con altri soggetti. In questa prospettiva il luogo di lavoro rappresenta, dunque, una ulteriore occasione ove il lavoratore può contrarre il virus.
Il rischio generico va distinto da quello specifico o c.d. endogeno che, al contrario del primo, è direttamente connesso alla mansione lavorativa posta in essere, vale a dire strettamente connaturato all’attività svolta. In questo ultimo caso, l’ambiente di lavoro figura quale fattore che introduce o dilata l’area di rischio.
Tra i rischi oggetto di obbligatoria valutazione, alla luce del Testo Unico salute e sicurezza, figura anche la categoria del rischio biologico nella quale, come anticipato, vi rientra anche il Covid-19.
Si potrebbe, quindi, essere indotti a ritenere che la nuova pandemia imponga al datore di lavoro di integrare ed aggiornare il DVR.
La questione è diffusamente discussa tra i tecnici e gli operatori di settore e trova soluzioni non sempre univoche.
Invero, da un’attenta lettura del Testo Unico salute e sicurezza, si evince che la redazione del DVR attenga esclusivamente a quelli connaturati all’attività lavorativa ed al processo produttivo ed impone al datore di lavoro di predisporre misure di prevenzione necessarie a prevenire detti rischi.
É sotto questa luce che va interpretato il rischio biologico generico, che quando non connesso all’attività lavorativa, esula da quello che è il contenuto obbligatorio del DVR.
Ne consegue che l’obbligo di aggiornamento del DVR riguardi esclusivamente quelle attività ove il rischio biologico sia un rischio professionale, endogeno, che trova la sua fonte direttamente nell’attività concretamente svolta. Tra queste rientrano, a titolo esemplificativo, le attività in cui si fa un utilizzo deliberato di agenti biologici o in cui si ha una possibilità di esposizione connaturata alla tipologia dell’attività svolta, dunque, ambienti sanitari, socio-sanitari o laboratori di ricerca.
Al contrario, in relazione a tutti gli ambienti lavorativi non sanitari, dove il rischio biologico è esclusivamente generico, esogeno, non sussiste l’obbligo di aggiornamento del DVR.
A tali conclusioni sono pervenute anche alcune Regioni, quali ad esempio la Regione Veneto (tra le prime ad affrontare l’emergenza) oltre all’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la circolare del 13 marzo 2020.
Possiamo trarre una prima conclusione che solo apparentemente sembrerebbe dare luogo ad una dicotomia: il datore di lavoro è tenuto a tutelare i propri dipendenti dal rischio di contagio apprestando tutte le misure di sicurezza necessarie a ridurre detto rischio, tuttavia, non ha alcun obbligo di aggiornamento del DVR, qualora, lo si ribadisce, si verta in ambienti di lavoro non sanitario.
L’adempimento di tali obblighi – pur non comprendendo una nuova valutazione dei rischi con la conseguente sanzione nel caso di omissione – richiede, in ogni caso, una condotta attiva da parte del datore di lavoro nella predisposizione di misure concrete tese a contenere il rischio di contagio, allineandosi alle raccomandazioni impartite dalle autorità a livello nazionale e regionale.
Quanto alle misure da adottare concretamente, la normativa emergenziale ha introdotto una serie di raccomandazioni rivolte a tutte le attività produttive industriali e commerciali, raccomandazioni che hanno trovato specifica attuazione nel Protocollo firmato in data 14 marzo 2020, sottoscritto da Governo, organizzazioni datoriali e sindacali recante la “regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro non sanitari”.
Per scongiurare la diffusione del contagio, il Governo, con più decreti, ha sospeso tutte le attività commerciali, produttive e industriali, salvo quelle ritenute essenziali, di cui al tassativo elenco contenuto nell’allegato al dpcm 22 marzo 2020 n.6 come modificato dal decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 25 marzo 2020.
Accanto ad esse, residuano attività che possono non essere sospese in quanto ritenute collaterali o a servizio delle prime, a condizione però che l’azienda offra garanzia di rispetto delle norme di sicurezza anticontagio.
In tal caso la possibilità di esercizio dell’attività è condizionata ad una comunicazione/autorizzazione amministrativa volta a consentire la continuità produttiva delle aziende appartenenti alla filiera delle c.d. attività essenziali, previa verifica del rispetto delle condizioni di sicurezza.
Lo stesso dpcm, poi, all’art. 3 codifica – per tutte le imprese le cui attività non siano sospese (perché rientranti nelle attività di cui all’allegato 1 oppure perché autorizzate dall’Autorità prefettizia) – in cosa consista lo specifico obbligo di sicurezza, mediante il richiamo alla obbligatorietà del rispetto dei contenuti del Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali.
É indubbio, quindi, che il Protocollo rappresenti un indispensabile strumento per il datore di lavoro in quanto fornisce le linee guida necessarie per la predisposizione delle misure atte a contenere il rischio epidemiologico, esonerandolo, in ambito civilistico, dalla prova diabolica di aver fatto tutto quanto necessario a garantire la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, così come richiesta dal paradigma normativo generale di cui all’art. 2087 c.c., già citato.
Tuttavia, non esime lo stesso dall’adottare ulteriori precauzioni nel caso in cui la concreta e specifica organizzazione aziendale lo richieda.
Senza alcuna pretesa di esaustività, il Protocollo, richiamando le raccomandazioni del dpcm 11 marzo 2020, elenca le seguenti attività che devono essere regolamentate per le finalità di prevenzione:

  • le modalità di ingresso ed uscita dei dipendenti dall’azienda e di accesso dei fornitori esterni, la gestione degli spazi comuni (mensa, spogliatoi, aree fumatori, distributori di bevande e snack ecc…), gli spostamenti interni, le riunioni, gli eventi e la formazione oltre l’organizzazione aziendale (turnazioni, trasferte, smart work e rimodulazione dei livelli produttivi);
  • l’igiene personale di ciascun lavoratore e la pulizia e sanificazione dell’azienda;
  • la fornitura di dispositivi di protezione individuale;
  • la sorveglianza sanitaria e la gestione di soggetto sintomatico nell’ambiente di lavoro;
  • l’informazione nei confronti dei dipendenti;
  • la costituzione in azienda di un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del RLS.

Vi è poi da chiarire come veicolare all’interno della realtà aziendale le linee guida adottate nel Protocollo e, quindi, individuare le modalità concrete con cui il datore di lavoro possa scongiurare sia il rischio di contagio sia quello di una eventuale contestazione penale.
Va chiarito, infatti, che una volta stabilito che sussiste una posizione di garanzia in capo al datore di lavoro in relazione al rischio di contagio dei propri dipendenti, nel caso in cui questi non si sia attivato e si verifichi l’evento da scongiurare (rectius contagio), può vedersi contestati reati quali le lesioni colpose o – nei casi più gravi – l’omicidio colposo.
Strumento privilegiato in tale senso è indubbiamente rappresentato dai modelli organizzativi di cui al D. Lvo. 231/2001 che andrebbero adottati o aggiornati rispetto alla nuova emergenza epidemiologica. Questo tipo di strumento ha il pregio di apprestare una tutela giuridica non solo al datore di lavoro ma anche all’Ente.
Tuttavia, in assenza di modelli organizzativi 231 residuano altre possibilità che, se non coprono una eventuale responsabilità dell’Ente, ben posso essere utilmente spese per evitare possibili future contestazioni al datore di lavoro.
Un ottimo spunto di riflessione viene offerto dalla già citata circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ove si legge: “è consigliabile formalizzare l’azione del datore di lavoro con atti che diano conto dell’attenzione posta al problema in termini di misure, comunque adottate ed adottabili dal punto di vista tecnico, organizzativo e procedurale, nonché dei DPI ritenuti necessari, in attuazione delle indicazioni nazionali, regionali e locali delle istituzioni a ciò preposte. Per la tracciabilità delle azioni così messe in campo è opportuno che dette misure, pur non originando dalla classica valutazione del rischio tipica del datore di lavoro, vengano raccolte per costituire un’appendice del DVR a dimostrazione di aver agito al meglio, anche al di là dei precetti specifici del d.lgs. n. 81/2008”.
Pertanto, il datore di lavoro, al fine di evitare future contestazioni, dovrà formalizzare le azioni poste in essere e procedimentalizzare l’adeguamento aziendale alle linee guida.
Infatti, qualora nonostante l’adeguamento e la procedimentalizzazione delle linee guida, si verificasse all’interno dell’azienda un caso di contagio, la formalizzazione delle misure ed il controllo del rispetto delle medesime attesterebbero come il datore di lavoro abbia fatto tutto quanto necessario al fine di scongiurare l’evento stesso.
Da ultimo, non deve essere sottovalutato l’ulteriore profilo difensivo rappresentato dalla prova, che spetterebbe all’Accusa, della sicura riconducibilità del contagio all’interno del luogo di lavoro; qualora, questo quesito trovasse risposta affermativa, l’Accusa dovrebbe, altresì, dimostrare che il contagio intraziendale sia avvenuto in ragione di una “falla” nella predisposizione o nel controllo del rispetto delle procedure adottate.
Concludendo, gli imprenditori dovranno necessariamente attivarsi e predisporre le procedure necessarie per il contenimento del contagio intraziendale al fine di scongiurare possibili e future contestazioni sia sul piano civilistico che penalistico.

Avv. Andrea Di Giuliomaria

avvocato di giuliomaria

 

CHIARIMENTI IN TEMA DI DIVIETO DI ASSEMBRAMENTO E IN RELAZIONE AGLI SPOSTAMENTI DELLE PERSONE FISICHE.

CIRCOLARE DEL MINISTRO DELL’INTERNO DEL 31 MARZO 2020

Il Ministero dell’Interno, con circolare del 31 marzo 2020, ha chiarito alcuni aspetti relativi al divieto di assembramento e allo spostamento delle persone fisiche, ribadendo l’obbligo di rispettare la distanza di sicurezza minima di almeno un metro da ogni altro soggetto.

Il Governo ha focalizzato la propria attenzione sulle strutture di accoglienza (ad esempio case-famiglia, ma verosimilmente anche strutture della medesima natura quali residenze per anziani o simili) precisando che, la compresenza in uno spazio aperto di più persone ospiti della medesima struttura, non viola il divieto di assembramento. Del tutto logicamente, tali realtà possono essere considerate speculari ad un nucleo familiare di maggiore dimensione ove le persone vivono a stretto contatto quotidianamente, sia nell’abitazione che nelle pertinenze di essa.

Per quanto concerne i soggetti che dall’esterno accedono alle strutture di cui sopra (operatori, fornitori, familiari ecc..) si rinviene nella Circolare l’introduzione da parte del Governo, per la prima volta, di un obbligo all’utilizzo di dispositivi di protezione (mascherine e guanti).

Per quanto riguarda le limitazioni relative allo spostamento delle persone fisiche la circolare in commento opera alcune precisazioni.

Ed invero, con riferimento alla regolamentazione degli spostamenti dei nuclei familiari, il Governo chiarisce che un solo genitore può svolgere attività motoria unitamente al figlio minore nei pressi della propria abitazione e portarlo con sé negli spostamenti motivati da situazioni di necessità o motivi di salute (ad esempio potrà recarsi a fare la spesa congiuntamente al figlio minore o recarsi dal medico per esigenze proprie o del figlio), nell’evidente considerazione che quest’ultimo non potrà essere lasciato solo presso l’abitazione.

Vengono, inoltre, ribaditi i divieti di svolgere attività ludica o ricreativa all’aperto e di accedere a parchi, ville, aree gioco o giardini pubblici, già presenti nell’ordinanza del Ministro della Salute del 20 marzo 2020, Non è quindi concesso uscire dalla propria abitazione se non per svolgere un’attività giustificata, esaurita la quale si dovrà fare immediato rientro presso la propria abitazione. La permanenza in luogo pubblico, quindi, dovrà essere limitata allo stretto necessario. La circolare chiarisce e conferma, altresì, la possibilità di svolgere esclusivamente attività motoria (camminare) individualmente e nelle vicinanze della propria abitazione. L’attività sportiva (jogging) risulta ad oggi vietata. Sul punto il dpcm 9 marzo 2020 permetteva, mantenendo le due categorie distinte, di praticare sport ed attività motorie all’aperto. Tuttavia, con successiva ordinanza del 20 marzo 2020, il Ministro della Salute aveva già introdotto un’ulteriore restrizione, mantenendo in essere esclusivamente la possibilità di svolgere attività motoria individualmente, in prossimità della propria abitazione.

Rimane consentito, comunque, spostarsi a piedi in presenza di esigenze lavorative, situazioni di necessità e motivi di salute. Al di fuori di questa casistica, quindi, con finalità di mero svago, risulta ormai possibile soltanto concedersi una camminata nei pressi della propria abitazione.

Con tale circolare il Governo, infine, qualifica come situazione di necessità o motivo di salute, la possibilità per chi assiste persone anziane o inabili, di raggiungere gli stessi per accompagnarli, nei pressi dell’ abitazione, nello svolgimento dell’attività motoria.

Pertanto, la ratio posta a base del complesso normativo, resta quella di autorizzare spostamenti individuali in presenza di determinate esigenze/giustificazioni, con l’eccezione di quei casi in cui vi siano soggetti minori, anziani o inabili che possano necessitare di essere affiancati durante i loro spostamenti, spostamenti che dovranno essere comunque sempre sorretti da una delle esigenze disciplinate dalla legge. Quanto previsto dalla circolare risulta pienamente in linea con le finalità proprie della normativa emergenziale, tese a ridurre al minimo la presenza di persone in circolazione, la creazione di assembramenti ed a limitare gli spostamenti consentendoli soltanto in presenza di specifiche ragioni disciplinate dalla legge.

Pisa, 1 aprile 2020

Avv. Andrea Di Giuliomaria