Sentenza Cass. pen., Sez. V, 14/11/2019 n. 1203

Il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione concorre in qualità di reato presupposto con il delitto di autoriciclaggio di cui all’art. 648 ter.1 c.p.

La Corte Suprema di Cassazione ha ritenuto che non sussistono ragioni ostative alla configurabilità del concorso tra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, sia post che pre fallimentare, quale reato presupposto e il delitto di autoriciclaggio di cui all’art. 648 ter.1 c.p.p., in presenza di tutti gli elementi costitutivi di tale ultima fattispecie.
La Cassazione chiarisce che, ai fini della configurabilità del delitto di autoriciclaggio, non risulta sufficiente il mero impiego in attività imprenditoriali dei beni dell’impresa poi fallita oggetto della condotta distrattiva, dovendo ricorrere gli ulteriori elementi caratterizzanti la fattispecie di autoriciclaggio. In particolare, la stessa norma perimetra le condotte punibili soltanto in quelle idonee ad ostacolare concretamente l’identificazione dell’origine delittuosa dei proventi (clausola modale) ed esclude la punibilità nel caso in cui il denaro, i beni e le altre utilità, provento del delitto presupposto, vengano destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale.

 

Penale Sent. Sez. 5 Num. 1203 Anno 2020
Presidente: VESSICHELLI MARIA
Relatore: PEZZULLO ROSA
Data Udienza: 14/11/2019

SENTENZA

sul ricorso proposto da: HU SHAOJING nato a ZHEJIANG( CINA) il 15/10/1964
avverso l’ordinanza del 13/07/2019 del TRIB. LIBERTA di PALERMO
udita la relazione svolta dal Consigliere ROSA PEZZULLO;
lette/sentite le conclusioni del PG MARIO MARIA STEFANO PINELLI
Il Proc. Gen. conclude per il rigetto
udito il difensore
L’avv. Enrico TIGNINI chiede l’accoglimento del ricorso

 

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 13.7.2019 il Tribunale del riesame di Palermo ha confermato il decreto di sequestro preventivo emesso dal G.I.P del Tribunale di Termini Imerese in data 24.06.2019 con riferimento al capitale sociale della H & Y s.r.l. del valore nominale di euro 10.000,00 di cui risulta socio unico il ricorrente Hu Shaojing, configurandosi a suo carico il fumus dei reati di concorso quale extraneus nella bancarotta fraudolenta documentale e per dissipazione, e
comunque, per distrazione dei beni della fallita Z&H s.r.l. ex art. 216, primo comma, n. 1 e 2, 219 commi 1 e 2 e 223 comma 1 L.Fall., nonché di cui agli artt. 110 e 11 D.Lgvo n. 74/2000 e di concorso nel reato di cui all’art. 648 ter.1 c.p..

1.1. Secondo quanto è dato evincere nella premessa del provvedimento impugnato, l’indagato – socio unico della H&Y s.r.l. costituita il 19 maggio 2016, in concorso con altri soggetti, tra cui gli amministratori di diritto della fallita. e gli amministratori concorrenti estranei delle società New Star, Y&H2 – avrebbe contribuito a determinare il fallimento della società Z&H s.r.I., distraendone il patrimonio della stessa, attraverso la creazione di altre società (e tra queste
appunto la H&Y) allo scopo di dividere i beni della fallita (sfruttando anche l’avviamento e gli utili pari ad almeno euro 3.183.016, come riportati nella dichiarazione dei redditi dell’anno 2016, continuando a svolgere la medesima attività commerciale nelle medesime sedi), in pregiudizio ai creditori della Z&H, rimettendo in tal modo in circolazione e investendo anche i proventi dei commessi delitti.
2 Avverso la suddetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione Hu Shaojing, a mezzo del suo difensore di fiducia, lamentando:
-con il primo motivo, la ricorrenza del vizio di cui all’art. 606, primo comma, lett. b), in relazione alla violazione dell’art. 11 del d.lgs. 74/2000 e dell’art 321 c.p.p.; invero, il reato di cui all’art. 11 D.Igs n. 74/2000 è un reato proprio, che può essere commesso solo ed esclusivamente dal contribuente obbligato, con equiparazione degli amministratori di fatto di una società a quelli di diritto; diversa è la situazione del ricorrente, ritenuto concorrente extraneus al delitto, non avente alcun rapporto od altro tipo di legame con gli amministratori di diritto della Z & H s.r.I.; in ogni caso, quel che rileva nella fattispecie in questione, è la fraudolenza dell’atto, ossia quel comportamento che quand’anche formalmente lecito risulti connotato da elementi di inganno o di artificio, consistente in uno stratagemma tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali all’esecuzione; ai fini della configurabilità del reato non è, dunque, sufficiente la semplice idoneità dell’atto ad ostacolare l’azione di recupero del bene da parte dell’erario, essendo necessario il compimento di atti che si caratterizzino per la loro natura simulatoria o fraudolenta, mentre tra le condotte di sottrazione contestate all’indagato difettano non soltanto negozi giuridici simulati, ma anche atti fraudolenti;
-con il secondo motivo, la ricorrenza del vizio di cui all’art. 606, primo comma, lett. b), c.p.p. in riferimento alla violazione dell’art 321 comma 1 c.p.p. c.p.p.; invero, il provvedimento impugnato ha confermato il sequestro preventivo ex art 321, comma 1, c.p.p. disposto per tutti i reati ed, in particolare, per il reato di bancarotta fraudolenta per la distrazione dei rami di azienda in favore di altre società e l’ammontare dei presunti utili distratti, ma non ha individuato la quota di utili che sarebbe stata assegnata a ciascuna società e specificamente alla H&Y; il valore del sequestro preventivo disposto nei confronti di ciascun indagato è di gran lunga superiore al valore delle presunte quote distrattive contestate;
-con il terzo motivo, la ricorrenza del vizio di cui all’art 606, primo comma, lett. b), c.p.p. in riferimento all’art.648 ter.1 c.p.; invero, l’ordinanza impugnata è viziata da violazione di legge circa il giudizio di gravità indiziaria per il delitto di autoriciclaggio, considerato che le condotte integratrici di quest’ultimo sono le stesse contestate con riguardo al reato di bancarotta, senza l’individuazione di alcuna attività dissimulatoria ulteriore; il fumus del reato in questione emerge esclusivamente in base al fatto che i beni e le utilità provenienti dalla società fallita sarebbero confluiti in altre realtà imprenditoriali caratterizzate da normale operatività, senza individuare un quid pluris che al di là del riutilizzo del denaro in altre attività sia indice di una particolare idoneità dissimulatoria rispetto all’origine del denaro.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso non merita accoglimento.
1.Giova premettere che il ricorso per cassazione contro le ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo, o probatorio, è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere, sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argonnentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante, o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e, quindi, inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez. 5, 13/10/2009, n. 43068; Sez. Un., n. 25932 del 29/05/2008). In particolare, in sede di riesame del provvedimento di sequestro , il Tribunale è chiamato a verificare l’astratta configurabilità del reato ipotizzato, valutando il “fumus commissi delicti”, in relazione alla congruità degli elementi rappresentati, non già nella prospettiva di un giudizio di merito sulla fondatezza dell’accusa, ma con riferimento alla idoneità degli elementi su cui si fonda la notizia di reato a rendere utile l’espletamento di ulteriori indagini per acquisire prove certe o ulteriori del fatto, non altrimenti esperibili senza la sottrazione del bene all’indagato o il trasferimento di esso nella disponibilità dell’autorità giudiziaria (Sez. 3, n.15254 del 10/03/2015,Rv. 263053).
Nell’ambito di tale cornice valutativa deve ritenersi come il provvedimento impugnato – con il quale, è stata rigettata la richiesta di riesame avanzata dall’indagato avverso il decreto di sequestro preventivo del 24.6.2019 – non meriti alcuna censura a fronte delle deduzioni infondate effettuate in ricorso.
2. Il primo motivo di ricorso, in merito alla inconfigurabilità nei confronti dell’indagato del reato di cui all’art. 11 del d.lgs. 74/2000 si presenta infondato. Ed invero, per quanto concerne la natura di “reato proprio” della fattispecie in questione- potendo essere commessa, a dispetto dell’incipit “chiunque”, solo dal contribuente- tale doglianza non coglie nel segno, atteso che all’indagato risulta contestato il concorso quale extraneus nel reato in questione, del tutto
ammissibile, laddove il concorrente estraneo abbia apportato un contributo causale, rilevante e consapevole, alla realizzazione dell’evento. Nel caso in esame la condotta addebitata al ricorrente è stata appunto quella di aver consentito, attraverso la costituzione della H & Y s.r.I., ricoprendo la carica di amministratore di essa ed essendo socio unico di essa, la dissipazione o distrazione dei beni della Z & H s.r.I., in parte confluiti nella nuova società (compresi l’avviamento, e gli utili), avente sede operativa proprio presso il centro commerciale di Siracusa, ove appunto vi era uno degli esercizi della società fallita ed avendo iniziato ad operare con la cessazione di fatto
dell’operatività della fallita; peraltro, la società H&Y risulta essere subentrata nel contratto di affitto della società fallita già nell’ottobre 2016, benchè la Z & H abbia cessato formalmente la propria attività solo nel 2017, dato questo sintomatico di un programma criminale comune, in data antecedente alla cessazione dell’attività da parte della società fallita.

2.1. Per quanto concerne, poi, l’elemento materiale del reato- consistente nell’alienazione simulata, o nel compimento di altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni, idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva- del pari il Tribunale del riesame, nel condividere l’impostazione del G.I.P., ha dato esaurientemente conto del fumus di esso, laddove ha evidenziato come la complessiva operazione di svuotamento della Z&H s.r.l. ed il trasferimento di fatto di tutti i beni materiali ed immateriali ad altre società, tra cui la H&Y s.r.I., conferendo, dunque, l’intero patrimonio a più nuovi soggetti, ben rientra nel concetto di atti fraudolenti, idonei a mettere in pericolo l’azione di recupero da parte dell’erario.
2.2. Con tale valutazione il Tribunale ha fatto corretta applicazione dei principi più volte affermati da questa Corte, secondo cui il delitto previsto dall’art. 11 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è reato di pericolo, integrato dal compimento di atti simulati o fraudolenti volti a occultare i propri o altrui beni, idonei – secondo un giudizio “ex ante” che valuti la sufficienza della consistenza patrimoniale del contribuente rispetto alla pretesa dell’Erario – a pregiudicare l’attività recuperatoria dell’amministrazione finanziaria (Sez. 3, n. 46975 del 24/05/2018, Rv. 274066; Sez. 3, n. 15133 del 17/11/2017, Rv. 272505). La fraudolenza dell’attività compiuta deve essere apprezzata, poi, nella fattispecie in esame, in relazione non solo alla lesione di un diritto altrui, per effetto della riduzione del patrimonio del debitore che rende più difficoltosa l’azione di recupero dell’erario, ma anche per il fatto che il pregiudizio arrecato non risulta essere
immediatamente tracciabile e comunque percepibile, come più volte evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità.
Inoltre, risulta essere pienamente configurabile il concorso tra il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, alla luce della diversità del soggetto-autore degli illeciti (nel primo caso, tutti i contribuenti, nel secondo, soltanto gli imprenditori falliti) e del differente elemento psicologico tra i reati (rispettivamente, dolo specifico e dolo generico) (Sez. 5, n. 35591 del 20/06/2017, Rv. 270810). Sulla stessa linea è stato condivisibilmente rilevato che è configurabile il concorso tra il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, atteso che le relative norme incriminatrici non regolano la “stessa materia” ex art.15 cod. pen., data la diversità del bene giuridico tutelato (interesse fiscale al buon esito della riscossione coattiva, da un lato, ed interesse della massa dei creditori al soddisfacimento dei propri diritti, dall’altro), della natura delle fattispecie astratte (di pericolo quella fiscale, di danno quella fallimentare) e dell’elemento soggettivo (dolo specifico quanto alla prima, generico quanto alla seconda) ( Sez. 3, Sentenza n. 3539 del 20/11/2015, Rv. 266133 — 01).
3. Manifestamente infondato si presenta il secondo motivo di ricorso in merito alla mancata individuazione della quota di utili che sarebbe stata assegnata dalla fallita Z & H s.r.l. a ciascuna società, tra cui la H&Y s.r.I., ed al valore del sequestro preventivo disposto nei confronti di ciascun indagato, da ritenersi di gran lunga superiore al valore delle presunte quote distrattive contestate. In proposito, deve evidenziarsi come il provvedimento impugnato abbia compiutamente evidenziato -senza alcuna seria contestazione sul punto- che tutto il patrimonio della Z&H s.r.I., tra cui i rami di azienda, l’avviamento e gli utili riportati nella dichiarazione dei redditi del 2016- pari ad almeno euro 3.183.016,00- siano confluiti nelle nuove società costituite, sicchè la mancata esatta indicazione della percentuale confluita nella H&Y s.r.l. non appare significativa, a fronte del disposto sequestro “del capitale sociale” della società pari ad appena euro 10.000,00.
4. Con il terzo motivo di ricorso, l’indagato lamenta la violazione di legge con riferimento al giudizio di gravità indiziaria, relativo al delitto di autoriciclaggio, adducendo in proposito un indirizzo di questa Corte, secondo cui non integra la condotta di autoriciclaggio il mero trasferimento di somme oggetto di distrazione fallimentare a favore di imprese operative, occorrendo a tal fine un “quid pluris” denotante l’attitudine dissimulatoria della condotta rispetto alla provenienza delittuosa del bene (Sez. 5, n. 8851 dell’ 01/02/2019, Rv. 275495).
Il riferimento all’indirizzo indicato, al fine di escludere la ricorrenza nella fattispecie del delitto di autoriciclaggio, in concorso con il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, si presenta del tutto infondato, non tenendo conto, né della concreta vicenda in esame, né del contesto nel quale sono stati espressi i principi suddetti.
4.1. In proposito, occorre innanzitutto premettere che non si ritiene sussistano ragioni od elementi ostativi a che il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione concorra, in qualità di reato presupposto, con il delitto di autoriciclaggio di cui all’art. 648 ter.1 c.p., in presenza ovviamente di tutti gli elementi costitutivi di tale ultima fattispecie, e ciò sia nel caso di bancarotta per distrazione post fallimentare che in quella prefallimentare, per quanto si evidenzierà in relazione alla fattispecie in esame.
Il reato di autoriciclaggio introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 3 della legge 15 dicembre 2014, n. 186, accanto ai delitti di riciclaggio (art. 648 bis ) e di impiego di denaro beni o utilità di provenienza illecita (648 ter), punisce chiunque “avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”. La previsione di cui al primo comma dell’art. 648 ter.1 c.p. deve essere letta, poi, in relazione alla precisazione di cui al successivo quarto comma, secondo cui “fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale”.

4.2. Le condotte del reato in questione – introdotto con la finalità di colmare il vuoto determinato dalle fattispecie di riciclaggio, punendo anche l’autoriciclatore e colui che abbia concorso nel delitto presupposto – sono innanzitutto l’impiegare, il sostituire e il trasferire il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione del delitto presupposto in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative (e per nozione di attività economica o finanziaria occorre far riferimento agli artt. 2082, 2135 e 2195 cod. civ., ricomprendendo non solo l’attività produttiva in senso stretto, ossia a quella diretta a creare nuovi beni o servizi, ma anche a quella di scambio e di distribuzione dei beni nel mercato del consumo, nonché ad ogni altra attività che possa rientrare in una di quelle elencate nelle menzionate norme del codice civile, cfr. Sez. 2, n. 33076 del 14/07/2016, Rv. 267693), ossia in sostanza la reimmissione delle utilità provenienti ex delicto nei canali economici legali.
Ciò però non è sufficiente, perché la ratio di colpire le condotte, successive a quelle costituenti il delitto presupposto, attraverso le quali il reo reimmette il provento del precedente reato in attività economiche, deve coniugarsi necessariamente con gli ulteriori elementi caratterizzanti la fattispecie e segnatamente con la clausola modale, che figura immediatamente accanto alle condotte (“ossia in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”), e con la causa di non punibilità espressa al comma 4 della norma citata.
Attraverso la clausola modale in questione, invero, è possibile ulteriormente circoscrivere il comportamento rilevante ai fini dell’integrazione della fattispecie, perimetrando le condotte punibili nell’ambito di quei comportamenti che, seppur non riconducibili allo schema degli artifici o dei raggiri, manifestano, comunque, la loro capacità di rendere obiettivamente difficoltosa l’individuazione dell’origine delittuosa dei proventi. L’utilizzo dell’avverbio “concretamente” non solo rimanda ad un accertamento oggettivo della idoneità del comportamento a creare un ostacolo, ma implica anche una valutazione del caso specifico, demandando al giudice il
compimento di una valutazione basata sulla considerazione di tutti i fattori dai quali desumere l’attitudine della condotta a creare l’ostacolo dell’identificazione della provenienza delittuosa dei beni (cfr. sul punto, Sez. 2 , n. 36121 del 24/05/2019, Rv. 276974, secondo cui ai fini dell’integrazione del reato di autoriciclaggio non occorre che l’agente ponga in essere una condotta di impiego, sostituzione o trasferimento del denaro, beni o altre utilità che comporti un
assoluto impedimento alla identificazione della provenienza delittuosa degli stessi, essendo, al contrario, sufficiente una qualunque attività, concretamente idonea anche solo ad ostacolare gli accertamenti sulla loro provenienza).

Inoltre, le suddette attività devono essere considerate in relazione al fatto che la mera utilizzazione od il godimento personale non sono punibili. Invero, l’ipotesi di non punibilità di cui all’art. 648-ter.1, comma quarto, cod. pen.- a termine della quale le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità non devono essere destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale- riguarda l’ipotesi in cui l’agente utilizzi o goda dei beni provento del delitto presupposto in modo diretto e senza compiere su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa (cfr. Sez. 2, n. 13795 del 07/03/2019, Rv. 275528) ed è perciò non punibile.
Tutti gli elementi indicati, letti singolarmente e valutati nel loro complesso, danno conto in definitiva della creazione di una fattispecie di reato plurioffensiva (in quanto “consolida la lesione del patrimonio della vittima del reato presupposto, ma lede anche l’amministrazione della giustizia e l’economia pubblica nel suo insieme”), che si affranca dalla categoria del post factum non punibile, e che correttamente interpretata esclude in sé la violazione del principio del ne bis in idem sostanziale.
4.3. In tale ottica, dunque, vanno lette le pronunce di questa Corte, richiamate dal ricorrente, circa la non configurabilità della condotta di autoriciclaggio, attraverso il mero trasferimento di somme oggetto di distrazione fallimentare, a favore di imprese, poiché effettivamente ciò non basta, occorrendo l’attitudine dissimulatoria della condotta rispetto alla provenienza delittuosa del bene (Sez. 5, n. 38919 del 05/07/2019, Rv. 276853). Nella sostanza ciò vuol dire che per configurare, accanto alla bancarotta per distrazione dei beni dell’impresa, poi fallita, o del loro ricavato a finalità estranee all’impresa medesima, anche il delitto di autoriciclaggio non basta il mero impiego di quegli stessi beni in attività imprenditoriali, ma occorrono pure gli ulteriori elementi specificamente descritti dai commi primo e quarto dell’art. 648 ter.1 c.p.
4.4. Nella fattispecie in esame ricorre il fumus di entrambi i reati suddetti, ossia della bancarotta fraudolenta per distrazione dei beni della Z&H s.r.l. e di autoriciclaggio di tali beni da parte dell’indagato, Hu Shaoijng, concorrente extraneus nel reato presupposto di bancarotta.
4.4.1. Per quanto concerne la bancarotta fraudolenta per distrazione, correttamente il Tribunale ha evidenziato che la Z&H s.r.I., avente esercizi commerciali in Bagheria, Palermo, Siracusa, dichiarata fallita con sentenza n. 8/2018 del 26.3.2018, su istanza presentata dai lavoratori dipendenti 7 quando ancora non palesava crisi, provvedeva nel 2016 alla distrazione dei suoi beni, tra cui l’avviamento e gli utili per almeno 3.0000.000 di euro circa, costituendo in accordo, con concorrenti estranei, più società, aventi sede negli esercizi commerciali della stessa Z&H. La neo costituita H&Y s.r.I.- avente quale amministratore e socio unico Hu Shaoijng nella quale sono confluiti in parte i beni distratti dalla fallita, con prosecuzione della medesima attività sotto altro nome, risulta subentrata nel contratto di affitto della Z&H s.r.l. già nell’ottobre 2016, benchè quest’ultima abbia cessato formalmente la propria attività solo nel 2017. Inoltre, la H&Y s.r.l. risulta avere il capitale sociale di 10.000,00 euro, ma non risulta aver mai beneficiato
dei crediti concessi dalle banche e società finanziarie, ha quale socio unico l’indagato- soggetto privo di redditi sufficienti ad intraprendere una qualsiasi attività commerciale- e, comunque, già disponeva all’atto dell’avvio di un complesso di beni aziendali, in quanto nel suo anno di costituzione effettuava acquisti per soli euro 816,00. Tali elementi danno conto sufficientemente della condotta distrattiva posta in essere dagli amministratori della Z&H s.r.I., in concorso con l’indagato.
4.4.2. La vicenda descritta dà conto, altresì, dell’attività di autoriciclaggio posta in essere da Hu Shaoijng, il quale dopo aver concorso a commettere il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione dei beni della fallita si è reso artefice del reimpiego dei beni e valori distratti dalla Z&H nella società H&Y s.r.I., della quale è divenuto amministratore e socio unico, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. La sottrazione ed il trasferimento dei beni della fallita, in concorso con il ricorrente, sono stati dissimulati attraverso la “polverizzazione del patrimonio”, impiegato appunto nella progressiva creazione di nuove società, senza dar modo alla curatela di ricostruire le cause del dissesto. La prosecuzione dell’attività a mezzo di altre società “cloni” ed a mezzo di prestanomi ha determinato un pregiudizio per gli interessi del fisco e dei creditori, nonché il reimpiego del provento dei reati di cui ai capi b) e c), pienamente integranti il delitto di autoriciclaggio, in assenza della causa di
esclusione della punibilità ex art. 648 ter.1 c.p.
4.4.3. La circostanza, poi, che trattasi nella fattispecie di distrazione prefallimentare, essendo stata l’attività illecita posta in essere nel 2016, due anni prima circa della dichiarazione di fallimento, non determina l’insussistenza del reato presupposto e conseguentemente dell’autoriciclaggio, contrariamente a quanto sostenuto in un orientamento di questa Corte (cfr. Sez. 2, n.23052 del 23/04/2015, Rv. 264040).
Al riguardo, sebbene il momento consumativo del reato di bancarotta fraudolenta prefallimentare, debba identificarsi con il momento in cui interviene la sentenza dichiarativa di fallimento e non con le singole condotte distrattive precedenti a tale declaratoria (ex plurimis Sez. 5, n. 45288 dell’ 11/05/2017, Rv. 271114; Sez. 5, n. 572 del 16/11/2016, Rv. 268600; Sez. 5, n. 26548 del 2014), tutt avia, come già evidenziato per i delitti di ricettazione e riciclaggio, anche il delitto di autoriciclaggio deve ritenersi configurabile nell’ipotesi di distrazioni fallimentari compiute prima della dichiarazione di fallimento, in tutti i casi in cui tali distrazioni erano “ah origine” qualificabili come appropriazione indebita, ai sensi dell’art. 646 cod. pen. (Sez. 2, n. 33725 del 19/04/2016, Dessì, Rv. 267497; Sez. 5, n. 572 del 16/11/2016, Rv. 268600), in considerazione del rapporto in cui si trovano il delitto di appropriazione indebita (aggravata ai sensi dell’art. 61 n. 11 cod. pen., in considerazione delle qualità dei soggetti agenti; e quindi all’epoca dei fatti anche procedibile d’ufficio) e il delitto di bancarotta patrimoniale, in ragione
del quale il secondo assorbe il primo (ai sensi dell’art. 84 cod. pen., divenendo l’appropriazione un elemento costitutivo della bancarotta: così Sez. 5, n. 2295 del 03/07/2015, Marafioti, Rv. 266018), quando la società, a danno della quale l’agente ha realizzato la condotta appropriativa (che diviene distrattiva), venga dichiarata fallita secondo una evidente progressione criminosa.

Peraltro- è stato anche affermato – che ai fini della configurabilità del reato di riciclaggio, non si richiedono l’esatta individuazione e l’accertamento giudiziale del delitto presupposto, essendo sufficiente che lo stesso risulti, alla stregua degli elementi di fatto acquisiti ed interpretati secondo logica, almeno astrattamente configurabile (Sez. 6, n. 28715 del 15/02/2013, Alvaro, Rv. 257206).
4.4.4. In ogni caso, con riguardo al delitto di autoriciclaggio- è stato anche evidenziato- come esso, pur essendo a consumazione istantanea, sia un reato a forma libera e può anche atteggiarsi a reato eventualmente permanente, quando il suo autore lo progetti e lo esegua con modalità frammentarie e progressive (Sez. 2, n. 29611 del 27/04/2016 Rv. 267511; Sez. 2, n. 33725 del 19/04/2016, Rv. 267497), tanto che può atteggiarsi anche nelle forme del reato eventualmente permanente (Sez. 2 n. 34511 del 29/04/2009, Rv. 246561), come si verifica nel caso di una pluralità di condotte attuate in un medesimo contesto fattuale e con riferimento a un medesimo oggetto, in cui è pertanto configurabile un unico reato a formazione progressiva che viene a cessare con l’ultima delle operazioni poste in essere (Sez. 2 n. 52645 del 20/11/2014, Rv. 261624).
La fattispecie in esame ben può attagliarsi anche a tale situazione, atteso che l’utilizzo dei beni distratti dalla società fallita è avvenuta, anche oltre la data del fallimento della Z&H s.r.I., quantomeno sino alla data del sequestro.
5. Alla luce di tutto quanto evidenziato, pertanto, il ricorso va respinto ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 14.11.2019

 

avvocato di giuliomaria

 

 

IL NUOVO DECRETO LEGGE 25 MARZO 2020, N. 19

E LE NUOVE DISPOSIZIONI IN AMBITO SANZIONATORIO

Con il decreto legge 25 marzo 2020, n. 19, in vigore dal 26 marzo 2020, il Governo ha previsto la possibilità di adottare una o più misure, per periodi predeterminati, tra quelle indicate in via generale nel medesimo decreto, ha modificato il sistema sanzionatorio nel caso di violazione delle misure stesse e delineato i rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali in relazione alla spendita dei poteri di emergenza.

La normativa

Il decreto legge del 25 marzo ha abrogato il decreto legge 23 febbraio 2020, n. 18, sostituendolo integralmente. Al pari del precedente decreto, il Governo ha nuovamente posto le basi per affrontare l’emergenza, prevedendo il potere di adottare una o più misure tra quelle indicate per categorie generali nello stesso decreto (divieto spostamenti delle persone, sospensione attività, chiusura di luoghi pubblici, sospensione di servizi pubblici ecc…), al fine di contenere la diffusione del contagio. Si tratta di attività programmatica a cui seguiranno nuovi dpcm che prevederanno misure più o meno restrittive sulla base della concreta situazione di rischio che di volta in volta verrà riscontrata.

Ciò non equivale a dire che, ad oggi, non sussista alcuna limitazione. Infatti, nelle more dell’adozione dei decreti attuativi:

  1. sono fatti salvi gli effetti prodotti e gli atti adottati sulla base dei decreti e delle ordinanze emanati ai sensi del D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 e continuano ad applicarsi, nei termini originariamente previsti, le misure già adottate con i dpcm emanati in data 8 marzo, 9 marzo, 11 marzo e 22 marzo. Pertanto, fino al 3 aprile 2020 o data precedente nel caso di nuovo intervento del Governo, continueranno ad applicarsi le misure disposte e attualmente vigenti in relazione a spostamenti, divieti o sospensioni. Quindi, in attesa dell’adozione dei nuovi decreti, continuano ad operare i vecchi dpcm e le misure da questi disposti;
  2. possono essere disposte misure dal Ministro della Salute con ordinanza, in casi di estrema necessità e urgenza per situazioni sopravvenute, con efficacia limitata fino all’entrata in vigore dei nuovi dpcm;
  3. possono essere introdotte misure ulteriormente restrittive da parte delle Regioni (nell’ambito di quelle categorie elencate nel decreto), in caso di specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario nel territorio di competenza o in una parte di esso, con efficacia limitata, anche in questo caso, fino all’entrata in vigore dei dpcm.

Il nuovo decreto è stato emanato, dichiaratamente, al fine di chiarire e regolare i rapporti tra gli organi di Stato (Governo e Parlamento) e le amministrazioni locali.

Il decreto legge prevede che ciascun dpcm abbia una durata non superiore a 30 giorni e che, nel complesso, le misure possano essere adottate fino al 31 luglio 2020, data corrispondente alla fine dello stato d’emergenza. Ed invero, con delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 è stato dichiarato lo stato d’emergenza per 6 mesi (dunque fino al 31 luglio 2020) in conseguenza del rischio sanitario connesso al Covid-19.

È necessario a tal proposito chiarire che la data del 31 luglio 2020 non indica la durata delle misure di contenimento, quanto il termine ultimo entro il quale il Governo è legittimato ad adottare ulteriori restrizioni o prorogare quelle già in essere. Resta inteso che lo stato d’emergenza possa essere revocato in qualsiasi momento e che le misure possano cessare anteriormente a quella data oppure possano essere graduate in modo più o meno restrittivo in base all’evoluzione della situazione, o essere limitate esclusivamente ad alcune porzioni del territorio nazionale.

Le nuove previsioni in materia di sanzioni

La modifica più rilevante introdotta con il decreto legge concerne le sanzioni, vale a dire la risposta sanzionatoria nel caso di violazione delle misure imposte.

Preliminarmente, va chiarito che a dispetto dei proclami dei giorni scorsi, che annunciavano la sostituzione della sanzione penale con quella meramente amministrativa, residuano tutt’oggi ipotesi di condotte penalmente rilevanti, alcune delle quali espressamente previste dal decreto legge.

È utile fare un po’ di chiarezza.

Condotte integranti illecito amministrativo punite con una sanzione pecuniaria e/o con la sanzione accessoria della sospensione dell’esercizio o attività:

  • la violazione di tutte le misure indicate in via generale dal decreto, così come verranno specificate dai dpcm attuativi, comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa, irrogata del Prefetto, del pagamento di una somma di denaro da euro 400 ad euro 3000. Inoltre, qualora il mancato rispetto delle misure avvenga mediante l’utilizzo di un veicolo, le sanzioni sono aumentate fino a un terzo e nel caso di reiterata violazione della medesima disposizione la sanzione amministrativa è raddoppiata. Pertanto, la violazione delle misure imposte non costituisce più reato ma illecito amministrativo punito con una sanzione pecuniaria. Tale previsione è efficace anche per le condotte poste in essere fino alla data di entrata in vigore del decreto, rispetto alle quali è prevista una riduzione della metà della sanzione minima amministrativa (euro 400 ridotta ad euro 200);
  • nel caso delle misure previste dall’art. 1, comma 2 lett. i), m), p), u), v), z) e aa) del decreto, che prevedono tra le altre anche la sospensione delle attività produttive e commerciali, oltre alla sanzione amministrativa suddetta (da euro 400 ad euro 3000) si applica, altresì, la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni. Nelle more dell’adozione del provvedimento di chiusura può essere disposta anche la chiusura provvisoria dell’esercizio o dell’attività per una durata non superiore a 5 giorni, tempo che dovrà essere scomputato dal periodo di sospensione definitivo inflitto dal Prefetto. Nel caso di reiterata violazione della medesima disposizione la misura accessoria viene applicata nella misura massima.Tutti i procedimenti amministrativi sorti in seguito a tali contestazioni rimangono comunque sospesi fino al 15 aprile 2020 ai sensi dell’art. 103, del D.L. 17 marzo 2020, n. 18.

Condotte integranti reato

L’art. 4, comma 1, ove si prevede l’applicazione di una sanzione amministrativa nel caso di violazione delle misure imposte, fa salvo il caso in cui il fatto costituisca reato. Pertanto, rimangono penalmente rilevanti:

  • la dichiarazione mendace nell’autodichiarazione circa le giustificazioni che legittimano lo spostamento, integra il reato di cui all’art. 483 c.p.;
  • la violazione del divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora, da parte di chi è sottoposto alla misura della quarantena perché risultato positivo al virus, oggi risulta punita, ai sensi dell’art. 260 del TULS, con l’arresto da 3 a 18 mesi e con l’ammenda da euro 500 ad euro 5000.

Dunque, in ordine a tale ultima fattispecie di reato deve ricorrere una doppia condizione: accertata positività al virus e conseguente provvedimento di quarantena. Le clausole aperte inserite nel decreto legge (“salvo che il fatto costituisca reato” o “comunque più grave reato”) lasciano aperta la possibilità che vengano contestate le più classiche fattispecie penali quali le lesioni personali o omicidio di cui agli artt. 590 e 589 c.p. se colposi oppure 582 e 575 c.p. se dolosi, in base all’evento cagionato.

La disciplina transitoria

L’art. 4, comma 1 prevede che “il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 2, comma 1, ovvero dell’articolo 3, e’ punito con la sanzione amministrativa (..omissis…)”.

Tale disposizione sembrerebbe prevedere la sanzione pecuniaria soltanto rispetto alle violazioni delle restrizioni previste nei dpcm che devono essere ancora emanati (quelli di cui all’art. 2 del decreto). Mentre rispetto alle violazioni precedenti viene stabilita la depenalizzazione e l’applicazione della sanzione amministrativa.

Residuerebbe, quindi, apparentemente, una parentesi temporale che va dal 26 marzo alla data di emanazione dei dpcm, ove le eventuali violazioni risulterebbero sprovviste di sanzione. Soccorre il buon senso che, a dispetto dell’infelice formulazione legislativa, suggerisce che la norma debba essere interpretata nel senso che la sanzione amministrativa sia sin da oggi in vigore.

Modifica del modulo di autodichiarazione

Proprio in virtù delle novità introdotte, è stato messo a disposizione dal Governo un nuovo modello di autodichiarazione nel quale:

  • si fa riferimento alle eventuali limitazioni disposte con provvedimento del Presidente della Regione: tale previsione si è resa necessaria in considerazione dei poteri riconosciuti a questi dal nuovo decreto legge;
  • sono richiamate le sanzioni previste dall’art. 4 del decreto legge (vedi sopra) nel quale si indica quale conseguenza della violazione delle misure disposte, la sanzione amministrativa del pagamento di una pena pecuniaria;
  • si modifica nuovamente la parte relativa alla giustificazione dello spostamento. Mantenendo fermi i motivi di salute e le comprovate esigenze lavorative per tutti gli spostamenti e l’assoluta urgenza per i trasferimenti in Comune diverso, viene modificata la categoria della situazione di necessità.

In base al nuovo modulo di autodichiarzione questa andrà a giustificare tanto gli spostamenti all’interno del Comune quanto quelli fuori dal Comune “che rivestono carattere di quotidianità o che, comunque, siano effettuati abitualmente in ragione della brevità delle distanze da percorrere”. Ed invero, nella precedente circolare di questo studio del 24 marzo, per le situazioni di necessità extracomunali per brevi spostamenti quotidiani o abituali, era stato consigliato di non barrare alcuna casella mancando un’espressa previsione, nonostante tale ipotesi fosse già contemplata nella circolare del Ministro dell’Interno del 24 marzo.

Il nuovo modello di autodichiarazione colma questo vuoto e prevede che nel caso di spostamenti tra Comuni diversi, giustificati da situazioni di necessità abituali o quotidiane, si potrà barrare la relativa casella, indicando nella parte descrittiva il dettaglio dell’esigenza. In questi ultimi casi, come già da precedente circolare di questo studio, rientrano l’assistenza a congiunti e gli spostamenti relativi ai figli minori. A tal ultimo proposito, tuttavia, permangono dubbi in ordine alla possibilità dei genitori separati di ricongiungersi ai figli minori, nel caso in cui questi si trovino a distanze non catalogabili come “brevi spostamenti”.

Pisa, 26 marzo 2020

Avv. Andrea Di Giuliomaria

Cass. Pen., Sez. III, 04/06/2019, n. 31223

Sono utilizzabili nel procedimento penale le dichiarazioni eteroaccusatorie rese dal coindagato nel corso delle operazioni di verifica fiscale della Guardia di Finanza, qualora, al momento dell’assunzione non siano ancora emersi indizi di reato.

Nel corso delle operazioni di verifica tributaria poste in essere dalla Guardia di Finanza possono emergere fatti integranti uno dei delitti di cui al D. L.vo. 10 marzo 2000, n. 74.
In merito, l’art. 220 disp. att. c.p.p. dispone che, se nel corso delle attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice di rito.
Sul punto la Cassazione, ponendosi in continuità con l’indirizzo interpretativo assolutamente dominante, ha ritenuto che il presupposto per l’operatività dell’art. 220 disp. att. c.p.p. cui segue il sorgere dell’obbligo di rispettare le garanzie difensive previste in materia penale, è costituito dalla possibilità di attribuire “rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa” a prescindere della circostanza che possa essere riferito a una persona determinata.
Nel caso concreto la Cassazione ha ritenuto legittima l’attività svolta dalla Guardia di Finanza, e, dunque, utilizzabili le informazioni assunte dal coindagato, considerato che al momento dell’assunzione delle dichiarazioni non era ancora emerso in tutti i suoi elementi costitutivi il fatto di reato ed, in particolare, non risultava accertato il superamento della soglia di punibilità, elemento questo indefettibile del delitto di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 D. Lvo. 74/2000.

 

Penale Sent. Sez. 3 Num. 31223 Anno 2019
Presidente: DI NICOLA VITO
Relatore: GAI EMANUELA
Data Udienza: 04/06/2019

 

SENTENZA

sul ricorso proposto da
Di Vico Alfonso, nato a Maddaloni il 20/08/1969
avverso l’ordinanza pronunciata dal Tribunale del riesame di Santa Maria Capua
Vetere il Benevento in data 24/01/2019;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Emanuela Gai;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pietro
Molino, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;
udito per l’indagato l’avv. Goffredo Grasso che ha concluso chiedendo
l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con l’impugnata ordinanza, il Tribunale del riesame di Santa Maria Capua Vetere ha respinto la richiesta di riesame proposta da Di Vico Alfonso, avverso il  decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta e per equivalente, emesso dal Giudice delle indagini preliminari del medesimo Tribunale, in relazione al reato di cui all’art. 5 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, eseguito mediante sequestro di un immobile del ricorrente.

All’indagato è contestato il reato di cui all’art. 5 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, in relazione alla omessa dichiarazione delle imposte sui redditi, per all’anno  2016, al fine di evaderle, quale amministratore di fatto della società Nuova Italia srl, ed essendo già stato amministratore unico fino al 13 settembre 2017. Fatto commesso nel gennaio 2018.

2. Avverso l’ordinanza ha presentato ricorso, ex art. 311 cod. proc. pen., il difensore di fiducia del Di Vico, e ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti motivi enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione come disposto dall’art. 173 dis.att. cod.proc.pen.

2.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge processuale in relazione agli artt. 191, 192, 63, 64, 350 cod.proc.pen. e il vizio di omessa motivazione. Sostiene il ricorrente la carenza di motivazione in relazione all’eccezione difensiva di inutilizzabilità delle dichiarazioni etero accusatorie rese da Di Donna Angelo, nel corso delle operazioni di verifica fiscale della Guardia di Finanza, in data 21/06/2018, poi trasfuse nel pvc del 19/09/2018, in violazione dell’art. 220 disp. att. cod.proc.pen., e degli artt. 63 e 64 cod.proc.pen., dichiarazioni neppure allegate al pvc che ne riporterebbe solo alcuni stralci.
Al momento in cui il Di Donna era stato sentito, in merito ai rapporti di conoscenza con il Di Vico, erano già sussistenti gli indizi di reità in relazione al reato ipotizzato, avendo il Di Donna già omesso la presentazione della dichiarazione dei redditi, sicchè le sue dichiarazioni sarebbero radicalmente inutilizzabili, per violazione degli artt. 220 disp, att. cod.proc.pen., perché rese senza le garanzie difensive e senza l’osservanza degli artt. 63- 64 cod.proc.pen.

2.2. Con il secondo motivo deduce la violazione dell’art. 220 disp.att. cod.proc.pen. e motivazione apparente in relazione all’eccezione difensiva di inutilizzabilità delle dichiarazioni del Di Donna che attribuivano la qualifica di
amministratore di fatto, in capo al Di Vico, della Nuova Italia srl, dichiarazioni rese allorchè erano già emersi indizi di reità nei suoi confronti, e all’omessa valutazione del pvc del 21/06/2018, non allegato all’informativa di p.g.
3. Il Procuratore Generale ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Il ricorso non mostra ragioni di fondatezza e va, pertanto, rigettato.

5. Le doglianze formulate nei due motivi di ricorso, che possono essere trattate congiuntamente, incentrate sull’inutilizzabilità della dichiarazione etero accusatorie rese dal coindagato Di Donna, acquisite nell’ambito di un’attività di verifica e perciò governata dalle regole dettate dall’art. 220 disp. att. cod. proc.
pen., sono infondate.
È, indubbio che, a norma dell’art. 220 disp. att. cod.proc.pen., quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergano indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale, devono essere compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice.
In tale ambito si è chiarito che il processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza, in quanto atto amministrativo extraprocessuale, costituisce prova documentale e, qualora emergano indizi di reato, occorre
procedere secondo le modalità previste dall’art. 220 disp. att., giacchè altrimenti la parte del documento redatta successivamente a detta emersione non può assumere efficacia probatoria e, quindi, non è utilizzabile (Sez. 3, n. 15372 del 10/02/2010, Fiorillo, Rv. 246599; Sez. 3, n. 6881 del 18/11/2008, Ceragioli, Rv. 242523). Ne consegue che la parte di documento compilata prima dell’insorgere degli indizi, ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di rito.
Il presupposto per l’operatività dell’art. 220 disp. att. cod.proc.pen., cui segue il sorgere dell’obbligo di osservare le disposizioni del codice di procedura penale per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire ai fini dell’applicazione della legge penale, è costituito dalla sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. 3, n. 15372 del 10/02/2010, Fiorillo, Rv. 246599; Sez. Un., 28/11/2004, n. 45477, Raineri, Rv 220291; Sez. 2, 13/12/2005, n. 2601, Cacace, Rv. 233330).
Quanto al momento a partire dal quale sorge l’obbligo di osservare le norme del codice di procedura penale e, dunque, diviene operativo l’art. 220 disp att. cod.proc.pen., da parte di chi svolge attività ispettiva, occorre muovere dalle citate Sezioni Unite Ranieri che hanno chiarito che il presupposto dell’operatività della norma sia non l’insorgenza di una prova indiretta, quale indicata dall’art. 192 cod. proc. pen., bensì la sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, Raineri, Rv. 220291).

Da cui il corollario che la rilevanza penale del fatto, pur nei limiti indicati dal citato arresto, deve emergere in tutti i suoi elementi costituitivi tra cui, avuto riguardo alla fattispecie contestata di omessa denuncia, ex art. 5 del d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, il superamento della soglia di punibilità che costituisce elemento costitutivo del reato (Sez. 3, n. 7000 del 23/11/2017, Venturini, Rv. 272578 – 01; Sez. 3, n. 35611 del 16/06/2016, Monni, Rv. 268007 – 01). Occorre, in altri termini, che nell’inchiesta amministrativa sia già delineato, in termini indicati dalle citate Sezioni Unite, un fatto di rilievo penale inteso questo nella sua completezza come descritto nella fattispecie normativa.

6. Così poste le coordinate interpretative, il Tribunale cautelare ha evidenziato, quanto al fumus del reato, che il ricorrente Di Vico Alfonso era stato amministratore e socio unico della Nuova Italia srl, fino al 13 settembre 2017, essendosi dimesso e sostituito nella carica di amministratore da Di Donna Angelo; che la sostituzione nella carica era avvenuta prima della scadenza dei termini per la presentazione della dichiarazioni dei redditi, dichiarazione omessa alla scadenza, nel gennaio 2018, momento nel quale la carica formale era in capo al nuovo amministratore Di Donna Angelo. Ha poi evidenziato che, dagli accertamenti della Guardia di Finanza, la società era rimasta inattiva dal momento della sostituzione dell’amministratore, da cui ha tratto il convincimento che l’amministratore nominato (Di Donna) era un mero uomo di paglia e che la gestione era imputabile al precedente amministratore (Di Vico) pur dimessosi poco prima (settembre 2017) come confermato dalle dichiarazioni rese Di Donna, nel corso dell’attività amministrativa della Guardia di Finanza, dichiarazioni su cui si appunta la censura di inutilizzabilità per violazione degli artt. 220 disp. att. cod.proc.pen. e 63 e 64 cod.proc.pen.
In tale ambito, il tribunale cautelare, contrariamente all’assunto difensivo, ha escluso la violazione citata dal momento che solo a seguito degli accertamenti in ordine ai costi deducibili o meno su cui vi era controversia, il Pubblico Ministero accertava all’ammontare dell’evasione di imposta relativa all’Ires superiore al limite previsto dall’art. 5 del del d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, per l’anno 2016.
Al momento dell’assunzione delle dichiarazioni rese dal Di Donna, non risultava accertato il superamento della soglia di punibilità, e dunque, l’attività svolta dalla Guardia di Finanza di assunzione di informazioni da parte del Di Donna, nell’ambito dell’indagine amministrativa, era legittima e non posta in violazione dell’art. 220 disp. att. cod.proc.pen. e degli artt. 63 e 64 cod.proc.pen.
Infine, rileva, il Collegio che la censura è, sul punto, anche aspecifica e il motivo è privo di autosufficienza in merito al superamento della soglia di punibilità nel momento in cui il Di Donna ha reso le dichiarazioni etero accusatorie. E’
principio pacifico che quando con il ricorso per cassazione si lamenti, come nella specie, l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di ricorso deve allegare, a pena di inammissibilità per aspecificità, il fatto da cui trae la sanzione processuale.

7. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali
Così deciso il 04/06/2019

avvocato di giuliomaria

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AUTODICHIARAZIONE COVID-19 E CONTROLLI

PROFILI PENALI

Allo scopo di contrastare il diffondersi del Coronavirus il Governo, con più decreti, ha disposto, per tutto il territorio nazionale, varie misure di sicurezza. Tra queste, quella di evitare di uscire dalla propria abitazione salvo che gli spostamenti non siano motivati da comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità o motivi di salute.

Tali esigenze dovranno essere attestate mediante autodichiarazione, che potrà essere resa anche al momento del controllo, attraverso la compilazione del modulo messo a disposizione dal Governo e in dotazione a tutti gli operatori della Forza Pubblica. Il mancato rispetto delle misure disposte è sanzionato da codice penale, ed in particolare, integra due REATI:

  1. Art. 650 c.p. – Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità – Colui che esce dalla propria abitazione senza alcuna giustificazione è punito con l’arresto fino a 3 mesi o con l’ammenda fino a 206,00 euro;
  2. Art. 483 c.p. – Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico – Colui che dichiara il falso con riguardo alla sussistenza di uno dei motivi giustificativi è punito con la reclusione fino a due anni;

 

COSA FARE QUINDI SE SI VIENE FERMATI?

  • Esibire l’autodichiarazione o, in mancanza di questa, dichiarare al pubblico ufficiale le ragioni della propria uscita. Si deve evitare assolutamente di dichiarare circostanze non vere in quanto il reato di cui all’art. 483 c.p. è molto più grave del 650 c.p. In ogni caso va tenuto presente che entrambi sono REATI e che la cosiddetta “ammenda” comminata dall’art. 650 c.p. NON è assolutamente assimilabile ad una multa in senso gergale. Si tratta di una vera e propria sanzione penale e, pagarla, equivale ad aver scontato una pena, con la conseguenza di “sporcare” la vostra anagrafe penale (la cosiddetta fedina penale).
  • La prima cosa da fare, se veniamo fermati e la Forza Pubblica ritiene ingiustificata la nostra motivazione di uscita (contestandoci quindi una violazione del decreto), è quella di chiedere di nominare un difensore di fiducia, perché una volta che vi viene contestata l’inosservanza del decreto, da quel momento, siete indagati. Si raccomanda anche di indicare quale luogo dove ricevere le notifiche del procedimento penale la propria residenza. Da quel momento in poi raccomandiamo di NON rilasciare alcuna dichiarazione senza la presenza del difensore.

 

Avv. Andrea Di Giuliomaria

Confisca del profitto del reato nel caso di versamento all’erario degli importi richiesti dall’Agenzia delle Entrate
Sentenza Cass. Pen., sez. III, 9/5/2018, n. 32213

Ai sensi dell’art. 12 bis, comma 2 D. L.vo 74/2000, non può essere disposta la confisca qualora il contribuente abbia interamente versato all’Agenzia delle Entrate gli importi da questa richiesti, essendo tale norma posta a garanzia della pretesa tributaria.

Si deve pervenire alla medesima conclusione anche qualora la quantificazione operata in sede amministrativa e versata dal contribuente all’Agenzia delle Entrate risulti divergente dalla quantificazione operata in sede penale, in ragione dell’intervenuto raggiungimento di forme di accordo, conciliazione o transazione fiscale fra il contribuente e l’Agenzia delle Entrate.

 

Penale Sent. Sez. 3 Num. 32213 Anno 2018
Presidente: LAPALORCIA GRAZIA
Relatore: CORBETTA STEFANO
Data Udienza: 09/05/2018

 

SENTENZA

sul ricorso proposto da
De Francesco Mario, nato a Torino il 15/12/1962

avverso l’ordinanza del 28/11/2017 del Tribunale della libertà di Torino

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Stefano Corbetta;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pietro
Gaeta, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio;
uditi i difensori, avv. Sergio Lorenzo Vitali, del foro di Torino, e avv. Tonio Di
Iacovo, del foro di Roma, che hanno concluso chiedendo l’accoglimento del
ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con l’impugnata ordinanza, il Tribunale di Torino, sezione del Riesame, imparziale accoglimento del ricorso proposto nell’interesse di Mario De Francesco avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal g.i.p. del Tribunale di Torino in data 27 ottobre 2017, ex art. 321, comma 1, cod. proc. pen., in riferimento all’art. 322 ter cod. pen., riduceva l’importo di cui al sequestro fino alla concorrenza del valore massimo di euro 2.689.952, ossia in relazione ai soli importi delle imposte indirette, che si assumono evase.
Il sequestro è stato disposto nel procedimento a carico del De Francesco, in quanto indagato per il delitto di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen., 2 d.lgs. n. 74 del 2000, per avere indicato, quale amministratore unico della Solver Enterprice srl (d’ora in avanti S.E.), nella dichiarazione annuale Ires e in quella Iva, al fine di evadere le relative imposizioni, elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, con l’evasione dei seguenti importi: 1.222.071 euro nel 2011; 1.248.231 nel 2012, 3.754.762 nel 2013.

2. Avverso l’indicata ordinanza, l’indagato, a mezzo del difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione, con cui si denuncia violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 321 cod. proc. pen., 322 ter cod. pen., 12 bis d.lgs. n. 74 del 2000, 6, comma 9 bis.3, d.lgs. n. 471 del 1997, come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015.
Premette il ricorrente che, in data 13 novembre 2017, l’Agenzia delle Entrate ha notificato al contribuente S.E., di cui il De Francesco è il legale rappresentate, cinque atti di contestazione, riportati integralmente nel ricorso, riferiti agli anni di imposta dal 2011 al 2015, che non contengono alcuna ripresa
fiscale sotto il profilo sia delle imposte dirette, sia delle imposte indirette, con l’applicazione, per ciascuna annualità, delle sanzioni previste dall’art. 6, comma 9 bis.3, d.lgs. n. 471 del 1997. In pari data, la S.E. ha provveduto al pagamento integrale delle sanzioni irrogate dall’Agenzia delle Entrate negli indicati atti di contestazione, come da copia del Modello unificato di pagamento per ciascuna annualità, pure integralmente riportati nel ricorso. Ciò premesso, osserva il ricorrente, il Tribunale ha ridotto l’importo di cui al sequestro relativamente all’asserita evasione delle imposte dirette, confermandolo, invece, per le imposte dirette. Premesso che le fatture in esame sono emesse in regime di reverse charge, in regione della natura dei beni compravenduti (rottami e materiali ferrosi), il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto ravvisabile il profitto del reato riconducibile al valore dell’imposta indebitamente detratta, poiché, in caso di operazioni soggettivamente inesistenti, l’utilizzatore perderebbe il diritto alla registrazione dell’importo IVA “a credito”, determinandosi in tal modo un debito iva (virtuale), derivante dalla registrazione del medesimo importo “a debito”.
Ad avviso del ricorrente, l’interpretazione seguita dal Tribunale disattenderebbe non solo le indicazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 16/E del 11 maggio 2017 relativamente alla disciplina del reverse charge, ma, soprattutto, il disposto dell’art. 12 bis comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, che inibisce la confisca per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario. Ed invero, posto che la ragione della confisca, in materia penale tributaria, risiede nel recupero del debito tributario, come accertato dall’Agenzia delle Entrate, una volta estinto quest’ultimo, come nel caso di specie, verrebbe meno la funzione del vincolo reale disposto a carico del contribuente. In altri termini, stante l’assenza di profitto, in conseguenza del condono “tombale” effettuato dalla S.E. in relazione (anche) alle annualità in contestazione, non vi sarebbe più spazio per il provvedimento ablatorio, lasciando, peraltro, impregiudicato il futuro giudizio di merito in ordine alla sussistenza del reato.

3. Con motivi aggiunti, depositati in data 19 aprile 2018, il ricorrente sviluppa le argomentazioni dedotte con l’atto introduttivo, insistendo per l’accoglimento del ricorso. In particolare, si evidenzia come il Tribunale abbia applicato in maniera che si assume distorta i principi affermati da Cass. civ., Sez. 5, n. 16679, 4 febbraio 2016, Rivadossi, secondo cui, anche quando le fatture utilizzate sono soggette al regime dell’inversione contabile (cd. reverse charge) – e dunque non generano passaggio di denaro tra le parti a titolo di iva, perché il cessionario non la versa al cedente – tuttavia la frode opera, come limite al principio fondamentale di neutralità dell’iva, ossia al principio secondo cui la detrazione dell’imposta è accordata se i requisiti dell’operazione sono comunque soddisfatti. In altri termini, secondo quella decisione, solo se l’operazione sottostante è fraudolenta, e quindi la fattura registrata è viziata da inesistenza, l’acquirente viene a perdere
il diritto alla detrazione dell’iva per le la fattura è stata emessa in regime di reverse charge; una situazione del genere, per contro, non sarebbe ravvisabile nel caso in esame, in quanto l’Amministrazione finanziaria ha dato atto della buona fede della S.E. con gli indicati atti di accertamento, in cui non è stata elevata alcuna contestazione relativamente alle imposte indirette. In ogni caso, il Tribunale avrebbe omesso ogni valutazione in relazione al profilo della proporzionalità tra l’importo della somma stimata quale profitto e il valore dei beni nella disponibilità dell’indagato, a carico del quale è stata applicata la misura ablativa.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato.

2. Premesso che, in questa sede, non è in discussione la sussistenza del delitto di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, ma solo le condizioni legittimanti il disposto sequestro del profitto del reato in esame, ritiene il Collegio che l’ordinanza impugnata non abbia fatto corretta applicazione dell’art. 12 bis, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, secondo cui “la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro”.

3. Invero, il sequestro in questione è stato disposto come misura prodromica volta a garantire l’effettività dell’eventuale successiva confisca del profitto del reato; orbene, osserva la Corte come la circostanza che il contribuente abbia inteRente versato all’erario gli importi richiesti dall’Agenzia delle Entrate, con riguardo a tutte le annualità in contestazione, si pone come elemento necessariamente ostativo alla possibilità di procedere alla confisca di quello che, dal Tribunale, è ritenuto essere il profitto del reato e, per l’effetto, al sequestro finalizzato alla confisca medesima.
3.1 Né può avere un qualche rilievo il fatto, che, nel caso di specie, vi sia divergenza fra la quantificazione dell’imposta evasa compiuta dal Tribunale – peraltro in forza di una discutibile interpretazione che nega efficacia retroattiva delle norme più favorevoli introdotte dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 (il quale ha aggiunto, all’art. 6 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, i commi 9-bis.1, 9- bis.2 e 9-bis.3) in tema di disciplina sanzionatoria delle operazioni soggette a reverse charge – e l’accertamento del suo ammontare da parte dell’Erario, ossia del creditore, il quale, per contro, ha applicato retroattivamente le disposizioni indicate e le conseguenti sanzioni, come ritenuto dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 16/E del 11 maggio 2017.

3.2 Questa Corte, infatti, con indicazione che merita di ricevere continuità in quanto evidente espressione di un atteggiamento di favor del legislatore per le forme di definizione del profilo strettamente tributario delle vicende connesse alla violazione delle disposizioni penali di cui al d.lgs. n. 74 del 2000 che consentano comunque all’Erario di conseguire il pagamento delle imposte ritenute dovute, ha precisato che, in materia di confisca di beni costituenti il profitto o il prezzo di reati tributari, la previsione di cui all’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, introdotta dal d.lgs. n. 158 del 2015, secondo la quale, anche in caso di condanna o di applicazione della pena concordata, la confisca, diretta o per equivalente, “non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro”, si riferisce alle assunzioni d’impegno nei termini riconosciuti e ammessi dalla legislazione tributaria di settore, ivi compresi gli accertamenti con adesione, IR conciliazione giudiziale, le transazioni fiscali ovvero l’attivazione di procedure di rateizzazione automatica o a domanda (Corte di cassazione, Sezione 3 penale, 7 luglio 2016, n. 28225).

3.3 Indubbiamente tale principio, in forza del quale deve attribuirsi rilevanza determinante, ai fini della esclusione della confiscabilità del profitto del reato tributario, alla quantificazione di esso operata in sede amministrativa, anche laddove la stessa sia divergente rispetto a quella acquisita in sede penale in ragione dell’intervenuto raggiungimento di forme di accordo, conciliazione o transazione fiscale fra il contribuente e la Agenzia delle Entrate, è, a fortiori, operante laddove non di solo impegno ad adempiere alla obbligazione tributaria si tratti ma, come nel caso di specie, di effettivo adempimento di essa, comprensivo di interessi e sanzioni.
3.4. E difatti tale interpretazione è in linea con quanto affermato da questa Corte, secondo cui in tema di reati tributari, il profitto, confiscabile anche per equivalente, del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, va individuato nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’Amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase, con la conseguenza che lo stesso non è configurabile, e non è quindi possibile disporre o mantenere il sequestro funzionale all’ablazione, in caso di annullamento della cartella esattoriale da parte della commissione tributaria, con sentenza anche non definitiva, e di correlato provvedimento di “sgravio” da parte dell’Amministrazione finanziaria (Sez. 3, n. 39187 del 02/07/2015 – dep. 28/09/2015, Lombardi Stronati, Rv. 264789).
3.5. Non è perciò pertinente il richiamo, operato dal Tribunale, al principio del “doppio binario”, ossia al fatto che le determinazioni assunte dall’Agenzia delle Entrate non sono vincolanti per il giudice penale; un principio del genere, infatti, trova applicazione in relazione alla sussistenza degli elementi tipici di questo o quell’illecito penale tributario, ma non relativamente alla determinazione del profitto del reato, laddove il creditore, ossia l’Agenzia delle Entrate, a seguito del pagamento di quanto dovuto dal contribuente, dichiari di non aver più nulla da pretendere dal contribuente medesimo. In altri termini, così come la previsione di cui al comma 1 dell’art. 12 bis d.lgs. n. 74 del 2000, disponendo, come obbligatoria, la confisca dei beni che, ai fini che qui rilevano, costituiscono il profitto dei reati tributari, è posta a garanzia della pretesa tributaria, parimenti l’ipotesi del comma 2 sta a significare che se non vi è pretesa tributaria, nemmeno vi può essere confisca e, di conseguenza, neanche la cautela reale ad essa finalizzata.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio il provvedimento impugnato e il decreto di sequestro in
data 27 ottobre 2017 e dispone la restituzione di quanto in sequestro all’avente
diritto.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 626 cod. proc. pen.
Così deciso il 09/05/2018.

 

 

Pagamento integrale del debito tributario: integrazione della causa di non punibilità o presupposto per accedere al rito del c.d. patteggiamento?
Sentenza Cass. Pen., Sez. III, 2/10/2019 n. 47287

 

In relazione ai reati di cui agli artt. 10 bis, 10 ter e 10 quater D. L.vo 74/2000, l’integrale estinzione del debito tributario prima della dichiarazione di apertura del dibattimento costituisce presupposto di operatività sia della causa di non punibilità di cui all’art. 13, comma 1,  D. L.vo 74/2000 che dell’accesso al rito del c.d. patteggiamento di cui all’art.13-bis del medesimo decreto.
Al fine di evitare una contraddizione interna del sistema, l’orientamento accolto in giurisprudenza ritiene che qualora vi sia l’integrale pagamento dovrà trovare applicazione la causa di non punibilità; al contrario in assenza di qualunque pagamento resterà impregiudicata la possibilità per l’imputato di chiedere l’applicazione della pena.
Diversamente per i reati di cui agli artt. 4 e 5 D. L.vo 74/2000, dal combinato disposto degli artt. 13, comma 2 e 13 bis del medesimo decreto, il pagamento del debito tributario intervenuto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento e prima che l’autore abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali integrerà la causa di non punibilità; qualora, invece, il pagamento sia intervenuto prima della dichiarazione di apertura del dibattimento ma dopo la conoscenza delle attività di cui sopra l’imputato potrà richiedere l’applicazione della pena.

 

Penale Sent. Sez. 3   Num. 47287  Anno 2019
Presidente: LIBERATI GIOVANNI
Relatore: CORBO ANTONIO
Data Udienza: 02/10/2019

 

SENTENZA

sul ricorso proposto
da Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Firenze
nel procedimento nei confronti di
Cetin Mehmet Emin, nato in Turchia il 03/01/1974
avverso la sentenza in data 21/02/2019 del Tribunale di Livorno
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Antonio Corbo;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Maria Giuseppina Fodaroni, che ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

 

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa in data 21 febbraio 2019, il Tribunale di Livorno, in composizione monocratica, ha applicato a Mehmet Ennin Cetin la pena di un anno e quattro mesi di reclusione condizionalmente sospesa, a norma dell’art. 444 e ss.cod. proc. pen., in ordine al reato di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000, commesso quale legale rappresentante della società “Med Kebab Production s.r.l.” con riferimento alla dichiarazione I.V.A. per l’anno di imposta 2012, determinando una evasione a tale titolo di 167.603,00 euro.
La sentenza impugnata ha omesso di disporre confisca.
2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Firenze, articolando due motivi.
2.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge per illegalità della pena, avendo riguardo alla inapplicabilità, nella specie, del rito del patteggiamento per difetto dei presupposti previsti dall’art. 13-bis d.lgs. n. 74 del 2000.
Si deduce che l’art. 13-bis d.lgs. n. 74 del 2000 esclude la possibilità di accedere al rito di cui all’artt. 444 e ss. cod. proc. pen. quando non vi sia stato integrale pagamento del debito o ravvedimento operoso e che tale violazione
determina l’illegalità della pena.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge per illegalità della pena, avendo riguardo alla mancata applicazione della confisca obbligatoria prevista dall’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000.
Si deduce che, in caso di reato di omessa dichiarazione, la confisca deve essere obbligatoriamente ordinata stante il disposto di cui all’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito precisate.
2. Fondate, innanzitutto, sono le censure esposte nel primo motivo, che deducono l’illegalità della pena per l’inapplicabilità del rito del c.d. “patteggiamento”, per il mancato pagamento del debito o per il mancato verificarsi del ravvedimento operoso.
2.1. Ad avviso del Collegio, per i reati di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. n. 74 del 2000, il rito speciale previsto dall’art. 444 e ss. cod. proc. pen. deve ritenersi ammissibile, a norma dell’art. 13-bis, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, solo quando, pur non sussistendo più i presupposti per l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 13 d.lgs. cit., i debiti tributari sono stati comunque estinti prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado.
Va precisato che la soluzione accolta segue ad una ricostruzione del dettato normativo che non intende in alcun modo porsi in contrasto con il principio, già affermato in sede di legittimità, secondo cui in relazione al delitto di omesso versamento dell’IVA, l’estinzione dei debiti tributari mediante integrale pagamento, da effettuarsi prima dell’apertura del dibattimento, non costituisce presupposto di legittimità del patteggiamento ai sensi dell’art. 13-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, in quanto l’art. 13, comma 1, configura detto comportamento come causa di non punibilità dei delitti previsti dagli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater del medesimo decreto e il patteggiamento non potrebbe certamente riguardare reati non punibili (così Sez. 3, n. 38684 del 12/04/2018, Incerti, Rv. 273607-01).
2.2. Per una più agevole comprensione della ricostruzione del sistema, è utile procedere ad una esposizione dei dati normativi rilevanti.
Innanzitutto, l’art. 13-bis, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, fissa in termini generali, per tutti i delitti previsti dal medesimo provvedimento normativo, il seguente presupposto di accesso al rito del c.d. “patteggiamento”: «Per i delitti di cui al presente decreto l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice
di procedura penale può essere chiesta dalle parti solo quando ricorra la circostanza di cui al comma 1, nonché il ravvedimento operoso, fatte salve le ipotesi di cui all’articolo 13, commi 1 e 2.».
L’art. 13-bis, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000, a sua volta, così tipizza la circostanza indicata nel comma 2 quale presupposto per accedere al rito del c.d. “patteggiamento”: «Fuori dai casi di non punibilità, le pene per i delitti di cui al presente decreto sono diminuite fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell’articolo 12, se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti,
anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento
previste dalle norme tributarie.».
Le cause di non punibilità, poi, sono previste dall’art. 13 del d.lgs. n. 74 del 2000, sulla base di presupposti diversi per i delitti di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, da un lato, e per i delitti di cui agli artt. 4 e 5, dall’altro. Precisamente, a norma dell’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000, «i reati di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso.». A norma dell’art. 13, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000,
invece, «i reati di cui agli articoli 4 e 5 non sono punibili se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.».
2.3. Dalla combinazione di tutte le disposizioni indicate, risulta innanzitutto evidente che problemi di ammissibilità del c.d. “patteggiamento”, per i delitti di cui agli artt. 4, 5, 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, non si pongono quando il pagamento del debito tributario dà luogo ad una causa di non punibilità a norma dell’art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000, perché in tal caso il giudice deve pronunciare sentenza di assoluzione, in linea con quanto disposto dall’art. 444, comma 2, cod. proc. pen.
Ciò premesso, operando il raffronto tra gli elementi costituivi della circostanza di cui all’art. 13-bis, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000, la cui verificazione è presupposto per l’accesso al rito del c.d. “patteggiamento”, e gli elementi costitutivi della fattispecie integrante la causa di non punibilità di cui all’art. 13, comma 1, del medesimo d.lgs., per i reati previsti dagli artt. 10-bis, 10-ter e 10- quater, comma 1, emerge una totale sovrapposizione. Ne discende che, per i reati appena indicati, l’estinzione integrale dei debiti tributari prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado dà luogo alla causa di non punibilità, in quanto prevista da una norma che è speciale rispetto a quella relativa alla circostanza attenuante ad effetto speciale: ed infatti, in presenza dei medesimi presupposti, mentre l’art. 13-bis, comma 1, prevede la diminuente per tutti i reati di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, l’art. 13, comma 1, si riferisce ad un sottoinsieme di fattispecie comprese in quella categoria, prefigurando una causa di non punibilità esclusivamente per i delitti di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1.
Di conseguenza, per i reati appena indicati, l’integrale pagamento del debito tributario prima della dichiarazione dell’apertura del dibattimento di primo grado non può mai costituire presupposto per l’accesso al rito del c.d. “patteggiamento” perché, se si verifica, dà luogo, in ogni caso, alla causa di non punibilità.
In presenza delle indicate fattispecie, quindi, l’alternativa è o ritenere preclusa in radice la definibilità del procedimento penale a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., o, al contrario, ammetterla, ma senza richiedere il preventivo pagamento del debito tributario. La prima soluzione, però, sembra poco plausibile perché l’art. 13-bis, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, nei suoi enunciati testuali, non fissa, in linea generale e programmatica, un divieto generale di accesso al c.d. //i  “patteggiamento” per i delitti di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1.
Diversamente deve ritenersi con riferimento ai reati di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. n. 74 del 2000.
Innanzitutto, per questi delitti, è giuridicamente ed empiricamente ipotizzabile ritenere che l’accesso al rito di cui all’art. 444 cod. proc. pen. sia subordinato al verificarsi della circostanza di cui all’art. 13-bis, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000. Invero, la causa di non punibilità di cui all’art. 13, comma 2, d.lgs. cit. si  verifica esclusivamente se l’integrale pagamento del debito è effettuato:
a) in collegamento con il ravvedimento operoso o la presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo;
b) «sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali».
È quindi evidente che, per i reati in questione, il pagamento del debito tributario effettuato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, ma dopo della formale conoscenza, da parte dell’autore del reato, di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali, non potrà integrare la causa di non punibilità, ma solo la circostanza attenuante ad effetto speciale.
Inoltre, la ricostruzione secondo cui l’adempimento del debito tributario è condizione necessaria per accedere al rito di cui all’art. 444 cod. proc. pen. appare coerente con il dato normativo. Ed infatti, la deroga alla necessità dell’avvenuto integrale pagamento del debito tributario prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado quale presupposto per la definizione del processo nelle forme del c.d. “patteggiamento” è prevista dall’art. 13-bis, comma 2, d.lgs. cit. non in relazione a tipologie di reato puntualmente richiamate, ma avendo riguardo alla integrazione di una delle «ipotesi» previste dall’art. 13, e, quindi, sembra far riferimento all’avvenuta integrazione di una causa di non punibilità.Ancora, l’esito ermeneutico di soluzioni differenziate per le fattispecie di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, rispetto alle fattispecie di cui agli artt. 4 e 5, peraltro, non solo è logicamente e sistematicamente ammissibile e risulta coerente con il dato normativo, ma appare giustificabile anche alla luce della diversa gravità delle fattispecie. Invero, mentre i delitti di cui agli artt. 10- bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, sono tutti puniti con la pena della reclusione da sei mesi a due anni, i delitti di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. n. 74 del 2000 sono puniti, il primo, con la reclusione da uno a tre anni, e, il secondo, con la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni.
2.4. Ritenuto che, per i reati di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. n. 74 del 2000, il rito speciale previsto dall’art. 444 e ss. cod. proc. pen. è ammissibile solo quando vi  sia stato l’integrale pagamento del debito tributario prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, pur se dopo la formale conoscenza, da parte dell’autore del reato, di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali, deve affermars che la sentenza impugnata ha illegalmente determinato la pena, applicando la
diminuente del rito in assenza dei presupposti necessari.
Invero, come risulta immediatamente già dall’intestazione della sentenza impugnata, l’imputato non ha ripianato nemmeno parzialmente il debito tributario.
3. Fondate, poi, sono anche le censure formulate nel secondo motivo, che deducono l’illegalità della pena per la mancata applicazione della confisca obbligatoria.
Ed infatti, a norma dell’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, «nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo cheappartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto.».
4. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, con restituzione degli atti al Tribunale di Livorno.

 

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e dispone trasmettersi gli atti al Tribunale di Livorno.
Così deciso il 02/10/2019
L’articolo offre un panorama della disciplina legislativa contenuta nel codice di rito in materia di notificazioni nel procedimento penale, comprese le conseguenze derivanti dal mancato rispetto delle formalità ivi previste e le soluzioni offerte dalla giurisprudenza alle diverse criticità che si sono registrate nell’applicazione concreta.

Il procedimento penale coinvolge una pluralità di soggetti che necessariamente devono essere portati a conoscenza degli atti e delle attività compiute nello stesso affinché possano esercitare i propri diritti o adempiere ai propri doveri. L’attività di notificazione – quale strumento mediante il quale si porta a conoscenza del destinatario tali atti e attività – trova la propria disciplina negli artt. 148 e seguenti c.p.p., norme che mirano al contemperamento tra l’esigenza di garantire l’effettiva conoscenza, da parte del destinatario, dell’atto che deve essere notificato e quella di assicurare l’accertamento del reato e la speditezza del procedimento penale. Il rispetto di tutte le formalità previste dal legislatore – assicurando l’effettiva conoscibilità dell’atto da parte dell’interessato – comporta il verificarsi di una presunzione legale di avvenuta conoscenza.
Orbene, gli organi e le forme ordinarie delle notificazioni trovano compiuta disciplina nell’art. 148, commi 1, 2, 2 bis e 3 c.p.p. Forme equipollenti sono previste, invece, dagli artt. 148, commi 4 e 5 e 151 commi 2 e 3 c.p.p.
Eseguita la notifica, il pubblico ufficiale redige la c.d. relata di notifica, di cui all’art. 168 c.p.p., la quale costituisce la prova della positiva avvenuta consegna dell’atto.
Le notificazioni nel procedimento penale richieste dalle parti private possono essere sostituite dall’invio di copia dell’atto, effettuata dal difensore, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento (art. 152 c.p.p. e 56 disp. att. c.p.p.).

Le notifiche al Pubblico Ministero sono eseguite anche direttamente dalle parti o dai difensori mediante consegna di copia dell’atto nella segreteria (art. 153 c.p.p.).
Quanto alla persona offesa, alla parte civile, al responsabile civile e alla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria le forme di notificazione sono disciplinate dagli artt. 154, 155 c.p.p. e 33 disp. att. c.p.p.
L’art. 167 c.p.p. disciplina le notifiche ai soggetti diversi dalle parti private, quali ad esempio testimoni o consulenti tecnici.
Le norme in materia di notificazioni nel procedimento penale all’imputato/indagato (in base alla fase del procedimento in cui tale attività deve essere compiuta) assume particolare importanza proprio per il contemperamento tra diritto di difesa e l’esigenza di celere definizione del procedimento stesso.
Con riguardo all’imputato/indagato il codice prevede due discipline alternative contenute negli artt. 161 e 157 c.p.p.

Ed invero, l’art. 161 c.p.p. disciplina la c.d. dichiarazione o elezione di domicilio.

La dichiarazione di domicilio consiste nell’indicazione del luogo ove l’imputato abita o lavora e nel quale gli atti saranno a lui notificati; per elezione di domicilio si intende, invece, la scelta di un domiciliatario, vale a dire di una persona differente che viene da lui scelta per ricevere copia dell’atto da notificare: una volta conosciuto l’atto dal domiciliatario si considera legalmente conosciuto dall’imputato/indagato.
La determinazione del domicilio dichiarato o eletto è valida per ogni stato e grado del procedimento, salvo quanto è previsto dagli artt. 156 e 613, comma 2 c.p.p. (art. 164 c.p.p).
Qualora la notificazione nel domicilio dichiarato o eletto divenga impossibile oppure la dichiarazione o l’elezione di domicilio mancano o sono insufficienti o inidonee le notificazioni sono eseguite mediante consegna al difensore ai sensi dell’art. 161, comma 4 c.p.p. Sul punto orientamento costante della Suprema Corte ritiene che al riguardo deve ritenersi sufficiente l’attestazione dell’ufficiale giudiziario di non aver reperito l’imputato nel domicilio dichiarato – o il domiciliatario nel domicilio eletto – non occorrendo alcuna indagine che attesti la irreperibilità dell’imputato, doverosa solo qualora non sia stato possibile eseguire la notificazione nei modi previsti dall’art. 157, come si desume dall’incipit dell’art. 159 c.p.p., sicché anche la temporanea assenza dell’imputato, o la non agevole individuazione dello specifico luogo indicato come domicilio, abilita l’ufficio preposto alla spedizione dell’atto da notificare, a ricorrere alle forme alternative previste dall’art. 161 c.p.p., comma 4 (ex plurimis Cass. Pen. Sez. III, 14 febbraio 2019, n. 13358).
Infine, deve essere osservato che in presenza di una rituale elezione di domicilio deve presumersi, in difetto di specifici elementi indicativi del contrario, che vi sia stata effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, anche se la notifica si è perfezionata per compiuta giacenza del plico presso l’ufficio postale.
Tuttavia, se per caso fortuito o forza maggiore l’imputato non ha potuto comunicare il mutamento del luogo dichiarato o eletto ai fini delle notificazioni nel procedimento penale, si applicano le disposizioni di cui agli artt. 157 e 159 c.p.p.

Nel caso in cui non sia stato possibile invitare l’imputato a dichiarare o eleggere domicilio, scatta la disciplina alternativa di cui all’art. 157 c.p.p.

Il codice distingue tra la prima e le successive notificazioni all’imputato non detenuto.
In particolare, l’art. 157 c.p.p. – facendo salvo quanto previsto dagli artt. 161 e 162 c.p.p. (prima disciplina) – prevede che la prima notificazione all’imputato non detenuto sia eseguita mediante consegna di copia alla persona (c.d. a mani proprie). Qualora non sia possibile consegnare personalmente la copia sono previste ulteriori modalità consecutive mediante le quali portare a termine il procedimento di notificazione.

La disciplina delle notificazioni nel procedimento penale risulta essere molto analitica. Tuttavia, può accadere che malgrado l’attivazione delle modalità previste dall’art. 157 c.p.p., non sia possibile effettuare la notificazione all’imputato poiché questi non risulta reperibile. In tal caso, l’art. 159 c.p.p., prevede l’esecuzione di nuove ricerche da parte dell’Autorità Giudiziaria e in caso di esito negativo l’emissione di un decreto di irreperibilità. Con tale provvedimento viene designato un difensore all’imputato che ne sia privo e viene ordinato che le notificazioni siano eseguite mediante consegna di copia allo stesso.
Il decreto di irreperibilità cessa di avere efficacia al termine della fase o del grado di merito, secondo quanto disciplinato puntualmente dall’art. 160 c.p.p., il quale disciplina anche tutti i relativi adempimenti.

Le notifiche successive alla prima saranno eseguite in relazione all’esito della stessa notificazione ovvero nel domicilio eletto, presso il difensore se l’imputato è stato dichiarato irreperibile, nel luogo in cui è stata effettuata la prima notificazione.

APPROFONDIMENTO

Quali sono i rapporti tra le discipline rispettivamente previste dagli artt. 157 e 161 c.p.p. e quando trova applicazione la previsione di cui all’art. 157, comma 8 bis c.p.p.
Le previsioni di cui agli artt. 157 e 161 c.p.p. sono alternative tra loro e delineano un doppio binario di disciplina considerata la clausola di riserva (salvo quanto previsto dagli artt. 161 e 162) contenuta nell’art. 157 c.p.p. Dal canto suo l’art. 157, comma 8 bis c.p.p. prevede che una volta operata la prima notificazione ai sensi dei primi otto commi dell’art. 157 c.p.p. le notificazioni successive sono eseguite, in caso di nomina di un difensore di fiducia, mediante consegna al difensore, a meno che quest’ultimo non dichiari immediatamente all’autorità che procede di non accettare la notificazione. In tal caso, questa sarà eseguita con le modalità ordinarie.
Tale disposizione risulta applicabile soltanto qualora non vi sia stata elezione o dichiarazione di domicilio (in tal caso prevarrebbe l’esigenza di notificare l’atto presso il domicilio medesimo) e si differenzia dalla notifica presso il difensore di cui all’art. 161 comma 4 c.p.p., la quale trova applicazione in caso di inidoneità della dichiarazione o elezione di domicilio. Infatti, l’art. 157, comma 8 bis c.p.p. ha un ambito di applicazione diversa dalla ipotesi ora richiamata. Ed invero, tale fattispecie si fonda sulla stessa condotta dell’imputato che, ricevuta la prima notifica, ha nominato un difensore di fiducia allo scopo di esercitare il proprio diritto di difesa ma non ha eletto o dichiarato domicilio. È, tuttavia, nel potere dell’imputato rendere inapplicabile l’art. 157, comma 8 bis c.p.p., mediante la dichiarazione del domicilio o la sua elezione presso un qualunque soggetto. Sul punto la Suprema Corte ha ritenuto che la notifica presso il difensore di fiducia ai sensi dell’art. 157, comma 8 bis c.p.p. nel caso in cui l’imputato abbia dichiarato o eletto domicilio per le notificazioni è nulla in quanto l’operatività dell’art. 157 c.p.p., comma 8 bis, è subordinata all’assenza di una dichiarazione o elezione di domicilio. Tutte le successive notificazioni, qualora l’imputato abbia nominato un difensore di fiducia e non abbia dichiarato o eletto domicilio, devono essere eseguite mediante consegna al difensore, ferma restando l’assenza di una preclusione all’esercizio della facoltà dell’imputato stesso di dichiarare o eleggere domicilio per le notificazioni anche dopo la nomina di un difensore di fiducia, esercizio che ha l’effetto di paralizzare la regola contenuta nel citato comma 8 bis.(cfr. Cass. Pen. S.U., 27/3/2008, n. 19602).

Gli artt. 156, 165, 166 e 169 c.p.p. disciplinano, infine, l’attività di notificazione nelle ipotesi particolari in cui l’imputato sia detenuto, latitante o evaso, interdetto o infermo di mente oppure si trovi all’estero.

Le notificazioni nel procedimento penale al difensore dell’imputato o delle altre parti private possono essere eseguite secondo le modalità ordinarie. Nel caso di più difensori la notifica deve essere fatta ad ognuno di questi. L’art. 148, comma 2 bis c.p.p. prevede che l’autorità giudiziaria può disporre che le notificazioni o gli avvisi ai difensori siano eseguiti con mezzi tecnici idonei. Tra i mezzi tecnici idonei rientra la notificazione operata a mezzo di posta elettronica certificata. Infatti, l’art. 16, co. 7, D.L. 29.11.2008, n. 185, ha previsto l’obbligo per ciascun avvocato, quale professionista iscritto all’albo, di munirsi di indirizzo di posta elettronica certificata ove appunto riceverà le notificazioni sia in proprio che quale domiciliatario dei propri assistiti. Dunque, tale mezzo può essere utilizzato quale sistema ordinario, generalizzato e alternativo all’impiego dell’ufficiale giudiziario.
Presso il difensore possono essere operate, dunque, sia notifiche di cui lui risulta direttamente il destinatario (c.d. notifiche in proprio) sia notifiche di atti che sono destinati all’imputato o ad altra parte privata.
In particolare, possono pervenire al difensore le notifiche destinate all’imputato in quanto elettivamente domiciliato presso di lui ex art. 161, comma 1 c.p.p. oppure in tutte le ipotesi di manifestazioni patologiche del rapporto tra imputato e ordinamento, quali il rifiuto di dichiarare o eleggere domicilio ovvero la mancata comunicazione di mutamenti successivi alla dichiarazione o elezione (art. 161, comma 1 c.p.p.), l’impossibilità di eseguire le notifiche nel domicilio dichiarato o eletto, l’insufficienza o inidoneità della dichiarazione o elezione (art. 161, comma 4 c.p.p..), la latitanza o evasione (art. 165 c.p.p.) ovvero l’irreperibilità (art. 160 c.p.p.).
Quanto alla persona offesa, alla parte civile, al responsabile civile e alla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria le notifiche sono eseguite presso il difensore quale domiciliatario ex lege ai sensi dell’art. 33 dip. att. e 154, comma 4 c.p.p..
Come chiarito dalla Suprema Corte la notificazione di un atto destinato all’imputato o ad altra parte privata, in ogni caso in cui la consegna debba essere fatta al difensore quale domiciliatario ex lege o volontario, può essere eseguita con tutti i mezzi tecnici idonei, a norma dell’art. 148 c.p.p., comma 2 bis c.p.p. e non necessariamente mediante consegna a mani.

Le notificazioni nel procedimento penale devono essere eseguite nel rispetto del termine a comparire, vale a dire il termine entro il quale l’atto deve essere conosciuto dal suo destinatario. Il mancato rispetto ha quale conseguenza il necessario rinnovo della notifica nonostante il suo esito positivo. I suddetti termini sono espressamente previsti da ciascuna norma che disciplina i diversi procedimenti previsti dal codice di rito. A titolo esemplificativo tali termini sono previsti dagli artt. 456, commi 3 e 5, 419, comma 4, 552, comma 3, 409, 410 e 127, 309, comma 8, e 324, comma 6 c.p.p.

La verifica del rispetto delle formalità previste in materia di notificazioni nel procedimento penale incide anche sulla diversa disciplina del processo in assenza dell’imputato.
Infatti, la verifica della regolare costituzione delle parti passa attraverso un doppio controllo che deve essere operato dal Giudice: da un lato, la regolarità dell’avvenuta notifica in base alle norme disciplinanti le formalità delle notificazioni; dall’altro la possibilità o meno di dichiarare assente l’imputato, in base alla disciplina contenuta negli artt. 420 bis e seguenti del codice di rito.

Il mancato rispetto della normativa in materia di notificazioni nel procedimento penale comporta l’invalidità degli atti compiuti. L’art. 171 c.p.p., norma di chiusura del titolo, prevede espressamente una serie di nullità speciali relative alle notificazioni.
Gli artt. 178 e seguenti c.p.p. contengono la disciplina relativa alle nullità di ordine generale. Le nullità di ordine generale sono di tre tipi: assolute, intermedie e relative. A ciascun tipo di nullità corrisponde un diverso termine di rilevabilità e diverse regole di deducibilità ed eventuale sanabilità delle stesse (artt. 179, 180 e 181 c.p.p.).
Sanatorie speciali in materia di notificazioni sono previste dall’art. 184 c.p.p.
Orbene, la formulazione delle norme ora richiamate non risulta esente da dubbi interpretativi.
Per quanto concerne l’imputato, la giurisprudenza ha chiarito che la nullità assoluta e insanabile prevista dall’art. 179 c.p.p. ricorre soltanto nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata omessa o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte dell’imputato, mentre non ricorre nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione, alla quale consegue l’applicabilità della sanatoria di cui all’art. 184 c.p.p.

QUALCHE APPLICAZIONE CONCRETA

  • La notifica di atti e avvisi eseguita a mani proprie dell’imputato ancorché in presenza di un’elezione di domicilio, è valida dovunque essa avvenga (cfr. Cass. Pen., Sez. I, 6 giugno 2000, n. 6675).
  • L’omessa notifica all’imputato dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare configura un’ipotesi di nullità assoluta e insanabile derivante dall’omessa citazione dell’imputato (cfr. Cass. Pen. S.U., 24/11/2016, n. 07697).
  • La notificazione in luogo diverso dal domicilio eletto, qualora l’imputato ha avuto comunque conoscenza ed interviene nel processo, costituisce una lesione del diritto di intervento dell’imputato di cui all’art. 178, lett. c), al quale è applicabile la sanatoria speciale di cui all’art. 184 cp.p.; qualora, invece, l’errore della notificazione ha comportato un difetto di conoscenza della citazione tale violazione risulta equiparabile alla omessa citazione dell’imputato e, dunque, ci troviamo di fronte ad una nullità assoluta di cui all’art. 179, comma 1 c.p.p. (cfr. Cass. Pen. S.U., 27 ottobre 2004, n. 119).
  • Integra una nullità a regime intermedio la notificazione avvenuta mediante deposito dell’atto presso la casa comunale ai sensi dell’art. 157, comma 8 c.p.p. con conseguente invio a mezzo di raccomandata dell’avviso di deposito, qualora non vi sia prova della ricezione della raccomandata stessa ( cfr. Cass. Pen., sez. II, 04/05/2017, n. 21984).
  • Il ricorso alla procedura di notificazione di cui all’art. 157, comma 8 c.p.p. (deposito presso la casa comunale) è possibile solo dopo aver tentato la notificazione mediante le modalità previste dai precedenti commi (consegna personale, persone abilitate presso la casa di abitazione o il luogo di abituale esercizio dell’attività lavorativa). L’omissione di tali adempimenti determina la nullità della notifica a norma dell’art. 171, lett. d c.p.p., la quale inficiando il procedimento della vocativo in ius riveste carattere assoluto ai sensi dell’art. 179 c.p.p. (cfr. Cass. Pen. sez. VI, 22/01/2015, n. 5722).
  • L’invalidità della notifica del decreto di citazione a giudizio dell’imputato, conseguente alla sua effettuazione con modalità diverse da quelle previste, determina una nullità di ordine generale a regime intermedio, che non può essere dedotta a seguito della scelta del giudizio abbreviato, in quanto la richiesta del rito speciale opera un effetto sanante della nullità ex art. 183 c.p.p. (cfr. Cassazione penale sez. III  27 marzo 2014 n. 19454).
  • Nel caso in cui non si proceda alla notifica presso il domicilio eletto (anche per difetto assoluto di verifica dell’idoneità dello stesso) e si attivi illegittimamente il meccanismo di comunicazione previsto dall’art. 161 comma 4 c.p.p. si verte in un caso di nullità assoluta, a rilevabilità permanente: la notifica all’imputato è infatti assente e non può ritenersi effettuata sulla base della presunzione di circolazione delle informazioni tra l’imputato ed il difensore, unico destinatario dell’avviso. Solo nel caso in cui la notifica sostitutiva sia suscettibile di essere inquadrata nella procedura prevista dall’art. 157 comma 8 bis cod. proc. pen., e, dunque, sia effettuata al difensore di fiducia, dopo che la prima notifica personale è andata a buon fine, l’omessa notifica presso il domicilio (successivamente) eletto può, invece, essere inquadrata come nullità generale a regime intermedio (cfr. Cass. Pen. sez. II, 09/01/2019, n. 11632).
  • La notificazione eseguita presso il difensore di fiducia, ex art. 157, comma 8-bis c.p.p. nel caso in cui l’imputato abbia dichiarato o eletto domicilio per le notificazioni non configura una nullità assoluta ed insanabile per omessa vocatio in jus, bensì una nullità di ordine generale e a regime intermedio per inosservanza delle norme sulla notificazione, che deve ritenersi sanata quando risulti provato che l’errore non abbia impedito all’imputato di conoscere l’esistenza dell’atto e di esercitare il diritto di difesa; essa rimane comunque senza effetto se non è dedotta tempestivamente, essendo soggetta alla sanatoria speciale di cui all’art. 184, comma I, c.p.p. alle sanatorie generali di cui all’art. 183 c.p.p. e alle regole di deducibilità di cui all’art. 182 c.p.p., oltre che ai termini di rilevabilità di cui all’art. 180 c.p.p. (cfr. Cass. Pen. S.U., 27/3/2008, n. 19602). Tuttavia, tale nullità non risulta sanata dalla mancata allegazione da parte del difensore di circostanze impeditive della conoscenza dell’atto da parte dell’imputato (cfr. Cass. Pen. S.U. 22/6/2017, n. 58120).
  • La nullità conseguente al mancato avvertimento al conducente di un veicolo, da sottoporre all’esame alcolimetrico, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, in violazione dell’art. 114 disp. att. c.p.p., può essere tempestivamente dedotta, a norma del combinato disposto degli artt. 180 e 182, comma 2, secondo periodo, c.p.p., fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado (cfr. Sez. Pen., S.U. 5 febbraio 2015, n. 5396).

Venendo alle notificazioni nel procedimento penale nei confronti del difensore e alle relative invalidità rientrano tra le nullità assolute quelle derivanti dall’assenza del difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza.
La presenza del difensore risulta obbligatoria non soltanto nelle udienze dibattimentali ma in tutti casi in cui la legge prevede come necessaria la presenza del difensore. A titolo esemplificativo si può richiamare l’art. 294, comma 4 c.p.p. (interrogatorio di garanzia), l’art. 350 comma 3 c.p.p. (assunzione sommarie informazioni da parte della p.g.), l’art. 391, comma 1 c.p.p. (udienza di convalida dell’arresto in flagranza e del fermo), l’art. 420, comma 1 c.p.p. (udienza preliminare), l’art. 401, comma 1 c.p.p. (incidente probatorio).
Costituiscono nullità a regime intermedio quelle derivanti dall’inosservanza delle disposizioni concernenti l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato e delle altre parti private.

QUALCHE APPLICAZIONE CONCRETA

Integra una nullità assoluta e insanabile quella derivante dall’omesso avviso dell’udienza al difensore di fiducia tempestivamente nominato dall’imputato che non può essere sanata dall’intervento del difensore di ufficio nominato ex art. 97, comma 4 c.p.p. Infatti la nomina di un sostituto processuale del difensore di fiducia scelto dall’imputato o del difensore di ufficio nominato dal giudice presuppone un regolare avviso ai titolari del diritto di difesa (cfr. Cass. Pen. S.U. 26/3/2015, n. 24630).
L’omesso avviso dell’udienza ad uno dei due difensori di fiducia configura una nullità di ordine generale a regime intermedio ai sensi dell’art. 180 c.p.p. (cfr. Cass. Pen. S.U. 01/06/2011, n. 22242; Cass. Pen. Sez. IV, 18/10/2018, n. 51539).
L’invalidità del decreto di citazione a giudizio per l’omessa notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari al difensore di fiducia, integra una nullità a regime intermedio e, pertanto, deve essere eccepita prima della deliberazione della sentenza di primo grado (cfr. Cass. Pen., sez. VI, 12/11/2013, n. 45581).
L’omessa o erronea valutazione da parte del Giudice della richiesta di rinvio del dibattimento per comprovato legittimo impedimento del difensore a comparire, con conseguente celebrazione del processo senza l’effettiva partecipazione del difensore di fiducia o di un sostituto da lui nominato, determina il difetto di assistenza dell’imputato con la conseguente nullità assoluta (cfr. Cass. Pen., V sez., 5 gennaio 2017, n. 535).
L’omesso avviso al difensore del conferimento dell’incarico peritale disposto in sede di incidente di esecuzione integra una nullità assoluta che incide sulla presenza obbligatoria del difensore al procedimento, con conseguente violazione dell’art. 178 lett. c) c.p.p., in relazione all’art. 179 c.p.p. (cfr. Cass. Pen., sez. III, 09/05/2017, n. 30167).

Infine, l’omessa citazione delle parti private diverse dall’imputato (parte civile, responsabile civile e civilmente obbligato per la pena pecuniaria) e della persona offesa dal reato e del querelante determina una nullità a regime intermedio.