La VI sez. pen. della Corte di Cass., con sent. n. 28952 del 2022, decide di esaminare una controversa fattispecie nell’ambito dei c.d. white collars crimes: può un medico chirurgo, alle dipendenze del Servizio Sanitario Nazionale, commettere il reato di concussione? E quali sono le condizioni per configurare, quantomeno in astratto, il reato previsto dall’art. 317 c.p.?
Brevemente i fatti: un medico chirurgo, in servizio presso una clinica convenzionata con il S.S.N., costringe – nella ricostruzione operata dai giudici di merito – una paziente a consegnargli una cospicua somma di denaro, per il compimento di un intervento chirurgico presso detta struttura.
Avverso la sentenza della Corte d’appello, la difesa dell’imputato propone ricorso per cassazione, dolendosi di una serie di “vizi” meritevoli di attenzione.
In primis, viene messa in discussione la sussistenza – nel caso concreto – della qualifica di pubblico ufficiale: l’attività svolta, dunque, dovrebbe essere inquadrata in un rapporto privatistico. In secundis, e soprattutto, la difesa lamenta l’errata interpretazione della norma penale con riguardo all’elemento oggettivo del reato: la paziente avrebbe consegnato il denaro a titolo di regalia, risultando assente la prova della costrizione.
Mediante pregevoli argomentazioni, il Supremo Collegio analizza gli aspetti nevralgici della quaestio iuris, cercando altresì di configurare precise linee guida in tema di concussione.
Preliminarmente, per quanto concerne la qualifica soggettiva nel reato, la Corte analizza la posizione ricoperta dal ricorrente: nelle cliniche convenzionate con il S.S.N., l’attività medica è effettuata “in funzione di supporto alla struttura pubblica”. In altre parole, in forza del rapporto concessorio sussistente tra la struttura privata e l’ente pubblico, la prima viene pienamente inserita nell’organizzazione pubblica. Nulla quaestio, dunque, circa la qualifica di pubblico ufficiale rivestita dal medico.
Con riferimento all’elemento oggettivo del reato – soffermandosi, in particolare, sul concetto di costrizione – la Cassazione ritiene che il motivo di ricorso sia fondato.
La condotta costrittiva, infatti, è caratterizzata da una precisa modalità realizzativa: il pubblico ufficiale abusa della propria qualità personale. Più nello specifico, l’intraneus approfitta di un potere che gli è stato legittimamente affidato per costringere il soggetto extraneus ad effettuare una dazione non dovuta.
Per queste ragioni, poiché l’abuso della qualifica di pubblico ufficiale costituisce elemento essenziale della condotta costrittiva – non già un suo presupposto – rileverà solamente qualora si obblighi il soggetto passivo a tenere un dato comportamento che, diversamente, non avrebbe tenuto.
In conclusione, poiché nel caso in esame la paziente avrebbe potuto effettuare l’intervento presso qualunque struttura ospedaliera, la condotta del medico non può ritenersi in alcun modo permeata dal c.d. “abuso costrittivo”.
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