OBBLIGHI E RESPONSABILITA’ PENALE DEL DATORE DI LAVORO

L’emergenza sanitaria in atto presenta importanti risvolti anche sul piano della prevenzione dei rischi nell’ambiente lavorativo ed, in particolare, con riguardo alla tutela della salute dei lavoratori e ai corrispondenti obblighi e responsabilità del datore di lavoro.
II rischio di contagio da Covid-19, infatti, costituisce un rischio ambientale che riguarda l’intera popolazione ed ogni contesto sociale e, dunque, anche quello lavorativo, in quanto anche i luoghi di lavoro – posta la concentrazione di più persone nel medesimo luogo – rappresentano una delle principali occasioni di trasmissione del virus.
Vi è da chiedersi, quindi, se ed in quale misura, rispetto a questa nuova e sconosciuta pandemia, il datore di lavoro – quale soggetto che ricopre sempre una posizione di garanzia a tutela dei propri dipendenti per ogni rischio connesso all’organizzazione del lavoro ed alle mansioni in concreto affidate ai singoli lavoratori – debba implementare le azioni volte a scongiurare il contagio e la diffusione del virus all’interno della popolazione aziendale.
Il problema si pone, oggi, per le aziende che operano nei settori c.d. essenziali che continuano ad essere operative, ma riguarderà – si auspica – nel prossimo futuro, anche le realtà economiche oggi sospese che, più o meno gradualmente, riprenderanno la propria attività.
Il quesito trova risposta nell’art. 2087 del codice civile a norma del quale: “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Si tratta di norma di portata generale e di chiusura del sistema prevenzionistico che, a mente della ormai consolidata giurisprudenza, impone al datore di lavoro di farsi garante dell’incolumità del lavoratore, prevedendo in capo al medesimo un generale dovere di sicurezza. Il datore di lavoro, dunque, dovrà predisporre le misure idonee a prevenire tutti i rischi connessi all’attività lavorativa anche quelli derivanti da fattori esterni ed estranei al processo produttivo.
Si può, dunque, affermare che è indubbio che sul datore di lavoro gravi una posizione di garanzia anche in ordine al rischio di contagio da Covid-19.
L’eccezionalità della situazione contingente, l’elevato grado di diffusione, la probabilità di dover ricorrere a cure ospedaliere (in un numero che “intaserebbe” – o meglio – che ha già “intasato” l’intero sistema sanitario), nonché il tasso di mortalità, hanno indotto – come noto – il Governo ad imporre ai consociati determinati comportamenti e ad adottare specifiche misure di prevenzione.
Ebbene, il buon senso prima, il diritto poi, impongono che l’ambiente di lavoro non possa rappresentare una zona franca, ovvero un luogo ove il rischio di contagio sia superiore a quello socialmente accettato.
Ne consegue che se è pur vero che il rischio di contagio da Covid-19 non rientri tra quelli “controllabili” dal datore di lavoro è, altresì, vero, che questi, deve garantire ai propri lavoratori di operare in un contesto che garantisca un livello di sicurezza quantomeno pari a quello esterno.
Il datore di lavoro dovrà, dunque, approntare tutte le misure e i dispositivi di sicurezza necessari a ricondurre e contenere il rischio da contagio all’interno dalla c.d categoria del “rischio consentito”.
Quindi, la posizione di garanzia in capo al datore di lavoro si rinviene nel codice civile e la categoria del rischio consentito ne delimita i confini, superati i quali null’altro può essere preteso dal datore di lavoro.
In tale contesto, si è posto l’ulteriore interrogativo se sussista o meno l’obbligo per il datore di lavoro di aggiornare il Documento di valutazione dei rischi (DVR) in seguito all’insorgenza dell’emergenza sanitaria in atto, posto che la mancata adozione/aggiornamento del documento in parola è sanzionata da fattispecie penali contravvenzionali previste dal Testo Unico 81/2008 (di seguito indicato come Testo Unico salute e sicurezza).
Ed invero, il Covid-19 è stato qualificato quale rischio di natura biologica generico. Per rischio generico si intende quel rischio non connaturato all’attività lavorativa stricto sensu intesa, ma derivante da fattori esterni non governabili dal datore di lavoro e presente in tutti i contesti sociali, lavorativi e non. A tale rischio, dunque, il lavoratore è esposto tanto nel luogo di lavoro quanto in qualsiasi altro contesto sociale che determini il contatto con altri soggetti. In questa prospettiva il luogo di lavoro rappresenta, dunque, una ulteriore occasione ove il lavoratore può contrarre il virus.
Il rischio generico va distinto da quello specifico o c.d. endogeno che, al contrario del primo, è direttamente connesso alla mansione lavorativa posta in essere, vale a dire strettamente connaturato all’attività svolta. In questo ultimo caso, l’ambiente di lavoro figura quale fattore che introduce o dilata l’area di rischio.
Tra i rischi oggetto di obbligatoria valutazione, alla luce del Testo Unico salute e sicurezza, figura anche la categoria del rischio biologico nella quale, come anticipato, vi rientra anche il Covid-19.
Si potrebbe, quindi, essere indotti a ritenere che la nuova pandemia imponga al datore di lavoro di integrare ed aggiornare il DVR.
La questione è diffusamente discussa tra i tecnici e gli operatori di settore e trova soluzioni non sempre univoche.
Invero, da un’attenta lettura del Testo Unico salute e sicurezza, si evince che la redazione del DVR attenga esclusivamente a quelli connaturati all’attività lavorativa ed al processo produttivo ed impone al datore di lavoro di predisporre misure di prevenzione necessarie a prevenire detti rischi.
É sotto questa luce che va interpretato il rischio biologico generico, che quando non connesso all’attività lavorativa, esula da quello che è il contenuto obbligatorio del DVR.
Ne consegue che l’obbligo di aggiornamento del DVR riguardi esclusivamente quelle attività ove il rischio biologico sia un rischio professionale, endogeno, che trova la sua fonte direttamente nell’attività concretamente svolta. Tra queste rientrano, a titolo esemplificativo, le attività in cui si fa un utilizzo deliberato di agenti biologici o in cui si ha una possibilità di esposizione connaturata alla tipologia dell’attività svolta, dunque, ambienti sanitari, socio-sanitari o laboratori di ricerca.
Al contrario, in relazione a tutti gli ambienti lavorativi non sanitari, dove il rischio biologico è esclusivamente generico, esogeno, non sussiste l’obbligo di aggiornamento del DVR.
A tali conclusioni sono pervenute anche alcune Regioni, quali ad esempio la Regione Veneto (tra le prime ad affrontare l’emergenza) oltre all’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la circolare del 13 marzo 2020.
Possiamo trarre una prima conclusione che solo apparentemente sembrerebbe dare luogo ad una dicotomia: il datore di lavoro è tenuto a tutelare i propri dipendenti dal rischio di contagio apprestando tutte le misure di sicurezza necessarie a ridurre detto rischio, tuttavia, non ha alcun obbligo di aggiornamento del DVR, qualora, lo si ribadisce, si verta in ambienti di lavoro non sanitario.
L’adempimento di tali obblighi – pur non comprendendo una nuova valutazione dei rischi con la conseguente sanzione nel caso di omissione – richiede, in ogni caso, una condotta attiva da parte del datore di lavoro nella predisposizione di misure concrete tese a contenere il rischio di contagio, allineandosi alle raccomandazioni impartite dalle autorità a livello nazionale e regionale.
Quanto alle misure da adottare concretamente, la normativa emergenziale ha introdotto una serie di raccomandazioni rivolte a tutte le attività produttive industriali e commerciali, raccomandazioni che hanno trovato specifica attuazione nel Protocollo firmato in data 14 marzo 2020, sottoscritto da Governo, organizzazioni datoriali e sindacali recante la “regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro non sanitari”.
Per scongiurare la diffusione del contagio, il Governo, con più decreti, ha sospeso tutte le attività commerciali, produttive e industriali, salvo quelle ritenute essenziali, di cui al tassativo elenco contenuto nell’allegato al dpcm 22 marzo 2020 n.6 come modificato dal decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 25 marzo 2020.
Accanto ad esse, residuano attività che possono non essere sospese in quanto ritenute collaterali o a servizio delle prime, a condizione però che l’azienda offra garanzia di rispetto delle norme di sicurezza anticontagio.
In tal caso la possibilità di esercizio dell’attività è condizionata ad una comunicazione/autorizzazione amministrativa volta a consentire la continuità produttiva delle aziende appartenenti alla filiera delle c.d. attività essenziali, previa verifica del rispetto delle condizioni di sicurezza.
Lo stesso dpcm, poi, all’art. 3 codifica – per tutte le imprese le cui attività non siano sospese (perché rientranti nelle attività di cui all’allegato 1 oppure perché autorizzate dall’Autorità prefettizia) – in cosa consista lo specifico obbligo di sicurezza, mediante il richiamo alla obbligatorietà del rispetto dei contenuti del Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali.
É indubbio, quindi, che il Protocollo rappresenti un indispensabile strumento per il datore di lavoro in quanto fornisce le linee guida necessarie per la predisposizione delle misure atte a contenere il rischio epidemiologico, esonerandolo, in ambito civilistico, dalla prova diabolica di aver fatto tutto quanto necessario a garantire la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, così come richiesta dal paradigma normativo generale di cui all’art. 2087 c.c., già citato.
Tuttavia, non esime lo stesso dall’adottare ulteriori precauzioni nel caso in cui la concreta e specifica organizzazione aziendale lo richieda.
Senza alcuna pretesa di esaustività, il Protocollo, richiamando le raccomandazioni del dpcm 11 marzo 2020, elenca le seguenti attività che devono essere regolamentate per le finalità di prevenzione:

  • le modalità di ingresso ed uscita dei dipendenti dall’azienda e di accesso dei fornitori esterni, la gestione degli spazi comuni (mensa, spogliatoi, aree fumatori, distributori di bevande e snack ecc…), gli spostamenti interni, le riunioni, gli eventi e la formazione oltre l’organizzazione aziendale (turnazioni, trasferte, smart work e rimodulazione dei livelli produttivi);
  • l’igiene personale di ciascun lavoratore e la pulizia e sanificazione dell’azienda;
  • la fornitura di dispositivi di protezione individuale;
  • la sorveglianza sanitaria e la gestione di soggetto sintomatico nell’ambiente di lavoro;
  • l’informazione nei confronti dei dipendenti;
  • la costituzione in azienda di un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del RLS.

Vi è poi da chiarire come veicolare all’interno della realtà aziendale le linee guida adottate nel Protocollo e, quindi, individuare le modalità concrete con cui il datore di lavoro possa scongiurare sia il rischio di contagio sia quello di una eventuale contestazione penale.
Va chiarito, infatti, che una volta stabilito che sussiste una posizione di garanzia in capo al datore di lavoro in relazione al rischio di contagio dei propri dipendenti, nel caso in cui questi non si sia attivato e si verifichi l’evento da scongiurare (rectius contagio), può vedersi contestati reati quali le lesioni colpose o – nei casi più gravi – l’omicidio colposo.
Strumento privilegiato in tale senso è indubbiamente rappresentato dai modelli organizzativi di cui al D. Lvo. 231/2001 che andrebbero adottati o aggiornati rispetto alla nuova emergenza epidemiologica. Questo tipo di strumento ha il pregio di apprestare una tutela giuridica non solo al datore di lavoro ma anche all’Ente.
Tuttavia, in assenza di modelli organizzativi 231 residuano altre possibilità che, se non coprono una eventuale responsabilità dell’Ente, ben posso essere utilmente spese per evitare possibili future contestazioni al datore di lavoro.
Un ottimo spunto di riflessione viene offerto dalla già citata circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ove si legge: “è consigliabile formalizzare l’azione del datore di lavoro con atti che diano conto dell’attenzione posta al problema in termini di misure, comunque adottate ed adottabili dal punto di vista tecnico, organizzativo e procedurale, nonché dei DPI ritenuti necessari, in attuazione delle indicazioni nazionali, regionali e locali delle istituzioni a ciò preposte. Per la tracciabilità delle azioni così messe in campo è opportuno che dette misure, pur non originando dalla classica valutazione del rischio tipica del datore di lavoro, vengano raccolte per costituire un’appendice del DVR a dimostrazione di aver agito al meglio, anche al di là dei precetti specifici del d.lgs. n. 81/2008”.
Pertanto, il datore di lavoro, al fine di evitare future contestazioni, dovrà formalizzare le azioni poste in essere e procedimentalizzare l’adeguamento aziendale alle linee guida.
Infatti, qualora nonostante l’adeguamento e la procedimentalizzazione delle linee guida, si verificasse all’interno dell’azienda un caso di contagio, la formalizzazione delle misure ed il controllo del rispetto delle medesime attesterebbero come il datore di lavoro abbia fatto tutto quanto necessario al fine di scongiurare l’evento stesso.
Da ultimo, non deve essere sottovalutato l’ulteriore profilo difensivo rappresentato dalla prova, che spetterebbe all’Accusa, della sicura riconducibilità del contagio all’interno del luogo di lavoro; qualora, questo quesito trovasse risposta affermativa, l’Accusa dovrebbe, altresì, dimostrare che il contagio intraziendale sia avvenuto in ragione di una “falla” nella predisposizione o nel controllo del rispetto delle procedure adottate.
Concludendo, gli imprenditori dovranno necessariamente attivarsi e predisporre le procedure necessarie per il contenimento del contagio intraziendale al fine di scongiurare possibili e future contestazioni sia sul piano civilistico che penalistico.

Avv. Andrea Di Giuliomaria