La colpa medica, da un punto di vista squisitamente penale, rappresenta uno degli argomenti più dibattuti in giurisprudenza e in dottrina, in ragione delle numerose problematiche che può celare.

La IV sez. Cass. Pen., con la sentenza n. 5117 del 2022, ha riaffermato alcuni significativi concetti proprio in ambito di responsabilità medica, occupandosi però di un caso alquanto singolare: un medico dispensava spontaneamente consigli – non conformi alla medicina tradizionale – ad un paziente affetto da una grave patologia tumorale, influenzandone le scelte terapeutiche. Nello specifico, suggeriva alla vittima di curarsi mediante trattamenti omeopatici.

La vicenda è piuttosto intricata per il motivo che segue: se si fosse trattato del medico che aveva in cura il paziente, nulla quaestio in ordine ad una sua piena ed evidente responsabilità penale. Tuttavia, trattandosi di un professionista che elargiva suggerimenti in modo spontaneo, i giudici torinesi non avevano vita facile nel sussumere la sua condotta nell’alveo dell’omicidio colposo.

Ciononostante, dopo essere stato condannato nei gradi di merito, l’imputato ricorre per cassazione facendo valere un vizio di motivazione: non può essere accertata alcuna responsabilità penale, poiché non sussisteva nessuna “relazione terapeutica” tra il medico e il paziente deceduto.

Il Supremo Collegio, con una pronuncia degna di nota, conferma la condanna del sanitario, il quale “pur non essendo formalmente medico curante della persona offesa, ha contribuito a definire un percorso terapeutico contrario a quello suggerito dalla medicina tradizionale”. Dunque, risponde di omicidio colposo – in cooperazione con il professionista che aveva in carico il paziente – poiché risulta provato che il ricorso alla medicina tradizionale, con altissima probabilità logica, avrebbe aumentato la prognosi di sopravvivenza della vittima.

In altri termini, per accertare la responsabilità del medico, non è necessario che questi rivesta una specifica posizione di garanzia, né che lo stesso violi una determinata regola cautelare. Infatti, affinché sussista la cooperazione ex art. 113 c.p., è sufficiente un “nesso di indole psicologica” che leghi la condotta dell’agente con quella degli altri soggetti cooperatori nel delitto colposo. Il nesso in parola – già di per sé idoneo a giustificare il riconoscimento di precisi doveri cautelari – si aggiunge a quello che il giudice di legittimità definisce “obbligo connaturato” all’attività medica: attivarsi a tutela della salute del paziente.

Il Giudice di legittimità conferma la condanna al medico, in ragione della sua grave imprudenza ed imperizia professionale e chiude la sentenza in esame con un “monito” per gli addetti ai lavori: la responsabilità per colpa può essere affermata solo dopo aver accertato che il comportamento alternativo lecito, richiesto dall’ordinamento, avrebbe evitato l’evento lesivo.

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