La V sez. pen. della Corte di cassazione, con sentenza n. 12827 del 2022, torna ad occuparsi di una tematica di grande interesse: la configurabilità del reato di atti persecutori nelle condotte del datore di lavoro e le eventuali differenze rispetto al comportamento c.d. “mobbizzante”.
Brevemente i fatti: il presidente di una società, nell’ambito della sua attività di gestione, aveva provocato nei lavoratori un perdurante stato d’ansia e di paura; in particolare, il datore di lavoro aveva ripetutamente minacciato i suoi dipendenti, aveva contestato loro degli addebiti disciplinari pretestuosi, giungendo persino a licenziare illegittimamente uno di essi.
I giudici di merito avevano affermato, senza alcun dubbio, la penale responsabilità dell’imputato per il delitto di atti persecutori, aggravato dall’aver commesso il fatto mediante abuso di autorità. Innegabile, ad avviso di tutti i giudicanti, la sussistenza delle condotte vessatorie e persecutorie.
Avverso la sentenza di secondo grado, la difesa dell’imputato proponeva un interessante ricorso per cassazione, criticando la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione.
La Corte, pur dichiarando infondato il ricorso, sfrutta la preziosa occasione per risolvere alcuni dubbi inerenti alla sussumibilità delle condotte mobbizzanti nel reato di stalking.
Innanzitutto, il Supremo Collegio ribadisce che il mobbing – inteso come condotte preordinate a mortificare ed isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro – può integrare il delitto di atti persecutori, ma ad una condizione: deve produrre nella vittima uno stato di prostrazione psicologica, il quale dovrà manifestarsi con uno degli eventi previsti ex art. 612 bis c.p.
Nulla quaestio, dunque, circa la possibilità di “sovrapporre” le due fattispecie. Tuttavia, è necessario che il giudice accerti due elementi immancabili: la mortificazione e l’isolamento del lavoratore mediante plurimi comportamenti ostili e il vulnus alla libera autodeterminazione della vittima. Il primo elemento, nondimeno, può essere rappresentato da un licenziamento totalmente pretestuoso, come nel caso qui esaminato.
Ad adiuvandum, il Massimo Consesso sottolinea che l’efficienza di una società non può mai essere raggiunta mediante l’umiliazione dei dipendenti, dovendo sempre prevalere la tutela della persona rispetto agli interessi economici.
Per concludere – poiché nell’ordinamento italiano non esiste, al momento, il reato di mobbing – la Corte chiarisce che è innegabile che vi siano alcune similitudini con la fattispecie degli atti persecutori: si pensi, per esempio, alle condotte oppressive reiterate nel tempo.
Non appare necessaria, a parere di chi scrive, la creazione di un’ulteriore fattispecie penale: le caratteristiche del delitto di stalking, infatti, ben consentono di accogliere nel novero delle condotte rilevanti anche i comportamenti tenuti da datori che tendano a svilire il ruolo del lavoratore, procurandogli uno stato di disagio psicofisico.
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