Il c.d. stalking è una fattispecie di reato abituale, la quale richiede per la sua integrazione condotte reiterate, omogenee od eterogenee tra loro, con cui l’autore minaccia o molesta la vittima.
Ai fini della sua integrazione risulta necessario, altresì, che le suddette condotte siano idonee a produrre alternativamente uno degli eventi specificamente individuati dalla norma: cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero, ancora, costringere la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita.
Nel caso di specie la Cassazione ha ritenuto integrato il reato di stalking stante le continue molestie operate nei confronti della persona offesa, anche mediante messaggi e post diffusi sui social network, oltre al numero infinito di espressioni aspramente offensive e minacciose adoperate in danno della medesima.
La Corte ha precisato, poi, che per ritenere integrato l’evento del perdurante stato di ansia e di paura non risulta necessario l’accertamento di un vero e proprio stato patologico e di una perizia medica.
Infine, ha ritenuto integrato il reato nonostante che all’interno del periodo di vessazione vi fossero stati momenti di avvicinamento della vittima all’imputato.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Sentenza 6 novembre 2019, n. 45141
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MORELLI Francesca – Presidente –
Dott. PEZZULLO Rosa – rel. Consigliere –
Dott. SCARLINI Enrico V. S. – Consigliere –
Dott. ROMANO Michele – Consigliere –
Dott. BORRELLI Paola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
D.P., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 30/11/2015 della CORTE APPELLO di ROMA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. PEZZULLO ROSA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. BIRRITTERI LUIGI, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità;
udito il difensore della parte civile si associa alle conclusioni del Procuratore Generale e si riporta alle proprie conclusioni scritte che deposita unitamente alla nota spese.
Svolgimento del processo
1.Con sentenza in data 30.11.2015 la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Roma il 5.5.2015 nella parte in cui D.P. veniva condannato alla pena di mesi dieci di reclusione per i reati di cui all’art. 612 bis c.p., comma 1, per avere con condotte reiterate, offeso, molestato e minacciato P.B., nonchè i suoi familiari e persone a lei vicine, e di cui all’art. 595 c.p., art. 61 c.p., n. 2 e art. 81 c.p., offendendo la reputazione della predetta attraverso post pubblici, riducendo la provvisionale ad Euro 5.000,00.
2.Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore di fiducia, lamentando con unico motivo la ricorrenza del vizio di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), per inosservanza o erronea applicazione dell’art. 612 bis c.p. con specifico riferimento alla insussistenza degli eventi di danno previsti dalla norma e per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in punto di ricorrenza dei medesimi eventi; invero, la sentenza impugnata risulta viziata nella parte in cui, con motivazione carente, ha concluso per la sussistenza del grave e perdurante stato d’ansia e del cambiamento delle abitudini di vita della p.o., P.B., senza considerare ciò che è emerso dall’istruttoria, ossia la sussistenza di numerosissime conversazioni intrattenute dalla p.o. con l’imputato e solo in una occasione la p.o. ha provveduto ad impedire al D. ogni interferenza con i suoi profili facebook, attraverso la procedura di “banning”; i comportamenti della p.o., ivi compreso quello dell’aver concesso il suo numero telefonico all’imputato, non si presentano consoni ad una p.o., gravemente e reiteratamente minacciata e molestata, anche tenendo conto degli episodi del (OMISSIS), che, correttamente interpretati danno conto del mantenimento di contatti di vario tipo della p.o. con l’imputato.
Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile, siccome manifestamente infondato.
1.Va premesso che le censure sviluppate dal ricorrente – in merito all’insussistenza nella fattispecie degli eventi di danno di cui all’art. 612 bis c.p. – si traducono in prevalenza in censure di fatto inammissibili in sede di legittimità. I motivi di ricorso, infatti, pur essendo formalmente riferiti a vizi riconducibili alle categorie dei vizi di violazione di legge e di motivazione, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), sono in realtà diretti a richiedere a questa Corte un sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dai giudici d’appello (Rv. 203767, 207944, 214794), laddove esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone).
2.Tanto precisato, si osserva che la Corte territoriale con motivazione logica, ampia ed esaustiva, priva di contraddizioni, sulla base della compiuta disamina delle risultanze acquisite ed, in particolare, delle dichiarazioni della parte offesa, P.B., ha correttamente ricondotto i fatti di cui al capo a) contestato all’imputato nella fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p., stante le continue molestie operate nei confronti della stessa, anche mediante messaggi e post diffusi sui social network nei confronti dalla vittima ed il numero infinito di espressioni aspramente offensive e minacciose adoperate in danno della P..
3. Invero, sulla base delle dichiarazioni della p.o., logiche e coerenti, riscontrate da specifici episodi, nonchè dalle dichiarazioni degli amici della stessa vittima, la Corte territoriale ha dato ampiamente conto della sussistenza degli eventi di danno previsti dall’art. 612 bis c.p. e segnatamente dello stato di ansia, tensione e paura, indotto nella vittima da parte dell’imputato, in considerazione peraltro del lungo arco temporale (oltre sette anni) in cui il predetto ha posto in essere il comportamento persecutorio che ha impedito alla vittima di svolgere una vita normale, anche sotto il profilo delle relazioni personali, insinuando la paura che nelle ore di relax all’improvviso si materializzasse l’imputato.
Inoltre, per effetto di tali condotte la P. è stata costretta a modificare le proprie abitudini di vita, ricorrendo spesso all’aiuto di amici per farsi accompagnare a casa, temendo le intrusioni del D., essendo stata costretta ad installare un blocco in entrata nelle chiamate in arrivo dei propri apparecchi telefonici ed a giustificare continuamente, presso i propri contatti anche di lavoro, le continue intrusioni diffamatorie del D. sui social network.
4. Quella di atti persecutori è strutturalmente una fattispecie di reato abituale – in quanto primo elemento del fatto tipico è il compimento di “condotte reiterate”, omogenee od eterogenee tra loro, con cui l’autore minaccia o molesta la vittima – ad evento di danno, che prevede più eventi in posizione di equivalenza, uno solo dei quali è sufficiente ad integrarne gli elementi costitutivi necessari (Sez. 5, n. 39519 del 05/06/2012, G., Rv. 254972): a) cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero b) ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un
prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero, ancora, c) costringere (la vittima) ad alterare le proprie abitudini di vita.
5. Nella fattispecie in esame, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, la Corte territoriale ha evidenziato come sulla base dello stesso narrato della p.o. emerga il determinarsi quantomeno dell’evento dello stato di ansia e tensione della vittima. Tale stato, prescinde dall’accertamento di un vero e proprio stato patologico e non richiede necessariamente una perizia medica, potendo il giudice argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell’agente sull’equilibrio psichico della persona offesa, anche sulla base di massime di esperienza (Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, Rv. 260412). In particolare, più volte questa Corte ha evidenziato come, ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell’agente (Sez. 5, n. 47195 del 06/10/2015 Rv. 265530; Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017, Rv. 269621), essendo sufficiente che gli atti ritenuti persecutori – nella specie costituiti da minacce, molestie insulti alla persona offesa, inviati anche con post e messaggi – abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612 bis c.p. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 c.p.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (Sez. 5, n. 18646 del 17/02/2017 Rv. 270020).
La prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, poi, ben può essere ricavata oltre che dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Sez. 6, n. 50746 del 14/10/2014), elementi questi tutti adeguatamente rappresentati nella sentenza impugnata.
6. Va infine evidenziato che l’ulteriore aspetto segnalato dal ricorrente, circa i momenti di avvicinamento della vittima all’imputato, è stato correttamente ritenuto irrilevante dalla Corte territoriale al fine della sussistenza del reato contestato.
Ed invero più volte questa Corte ha evidenziato come nell’ipotesi di atti persecutori commessi nei confronti della ex convivente, l’attendibilità e la forza persuasiva delle dichiarazioni rese dalla vittima del reato non sono inficiate dalla circostanza che all’interno del periodo di vessazione la persona offesa abbia vissuto momenti transitori di attenuazione del malessere in cui ha ripristinato il dialogo con il persecutore (Sez. 5, n. 5313 del 16/09/2014 Rv. 262665 – 01, atteso che l’ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell’imputato non rende di per sè inattendibile la narrazione delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell’analisi delle dichiarazioni in seno al contesto degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice (Sez. 6, n. 31309 del 13/05/2015 Rv. 264334), attenzione questa che risulta essere stata adeguatamente prestata, per quanto è dato evincere dalla motivazione della sentenza impugnata.
7. Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende, nonchè alla rifusione delle spese della parte civile, liquidate in complessivi Euro 2500,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende, nonchè alla rifusione delle spese di difesa della parte civile nel presente grado di giudizio che liquida in complessivi Euro 2.500 oltre accessori di legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 17 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2019