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Al fine di ritenere sussistente la responsabilità del datore di lavoro per un infortunio occorso al lavoratore risulta necessario l’accertamento di tutti gli elementi costitutivi del reato colposo.
Ed invero, una volta ritenuto sussistente il nesso di causalità tra condotta ed evento, risulta necessario individuare la regola cautelare violata, accertare la causalità della colpa, la concretizzazione del rischio e l’efficacia del comportamento alternativo lecito. Deve essere dimostrata, infine, l’esigibilità del comportamento conforme alla regola cautelare da parte dell’agente che concretamente si trova ad agire. In particolare, deve accertarsi l’evitabilità e la prevedibilità dell’evento da parte dell’autore tenendo conto delle circostanze presenti nel caso concreto.
E’ possibile pervenire ad un giudizio di responsabilità solo dopo aver accertato la sussistenza del reato in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi.
Nel caso concreto la Suprema Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata ritenendo che non fosse stato operato un accertamento esaustivo in ordine a tutti i profili del reato colposo, ed in particolare, nel caso di specie la prevedibilità ed evitabilità dell’evento, basandosi l’affermazione della responsabilità del datore di lavoro su elementi meramente presuntivi ed assertivi.

Penale Sent. Sez. 4 Num. 9216 Anno 2020
Presidente: FUMU GIACOMO
Relatore: PAVICH GIUSEPPE
Data Udienza: 20/02/2020

 

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
ROMAGNOLI GIULIANO nato a MONTECAROTTO il 17/02/1965
avverso la sentenza del 28/02/2019 della CORTE APPELLO di ANCONA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE PAVICH;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUCA TAMPIERI
che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
udito il difensore
Il difensore presente chiede l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d’appello di Ancona, in data 28 febbraio 2019, ha confermato la  sentenza con la quale, il 18 aprile 2017, il Tribunale di Ancona aveva condannato  Giuliano Romagnoli alla pena ritenuta di giustizia per il reato p. e p. dall’art. 590,  commi 1, 2 e 3 cod.pen., con violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni  sul lavoro, contestato come commesso in Morro d’Alba il 26 agosto 2014.
Il Romagnoli risponde del suddetto reato quale legale rappresentante della Techpol s.r.l. e datore di lavoro di Giacomo Andreoli, operaio dato in  somministrazione dall’agenzia GiGroup quale addetto alle presse. L’Andreoli,  nell’eseguire un’operazione di stampaggio di componenti plastici su una pressa,  posizionava tali componenti sul relativo stampo, introducendo in tale occasione il  braccio sotto la matrice dopo avere aperto il riparo di protezione; prima che  l’Andreoli potesse chiudere tale riparo ed estrarre il braccio, la matrice iniziava a  muoversi e colpiva la mano dell’operaio incastrandola sul punzone e cagionando  le lesioni traumatiche da schiacciamento meglio descritte in atti. In tal modo,  secondo l’addebito, il Romagnoli avrebbe violato in particolare l’art. 71, comma 1,  D.Lgs. n. 81/2008, per avere messo a disposizione dei dipendenti un macchinario  sprovvisto di adeguati sistemi di sicurezza, ossia nella specie di un’adeguata  protezione che impedisse di raggiungere con gli arti la zona pericolosa della
macchina.
Nel rigettare l’appello proposto dall’imputato, confermando la sentenza di  condanna di primo grado, la Corte dorica, accreditando le dichiarazioni rese dal teste Mosca (tecnico della prevenzione), ha affermato che l’infortunio si era  verificato per un malfunzionamento della pressa, cagionato verosimilmente da una  cattiva o non corretta manutenzione del macchinario; non era invece stata fornita  dal Romagnoli la prova del suo assunto, teso a dimostrare che nella specie  l’infortunio si era verificato per caso fortuito; a sostegno di tale assunto la Corte  di merito richiama la deposizione del teste a discarico Aureli, tecnico della  manutenzione dei macchinari, il quale aveva ammesso che la macchina funzionava  quando ancora il riparo non era completamente chiuso. Sono state disattese dalla  Corte territoriale anche le ulteriori argomentazioni difensive relative al  comportamento della persona offesa, che secondo l’appellante doveva giudicarsi  come abnorme (in quanto l’Andreoli era stato adeguatamente formato e informato  dei rischi connessi all’operazione, ma aveva disatteso le istruzioni a lui impartite),  a fronte del fatto che le prove raccolte — ed in specie la testimonianza della persona offesa – non consentono di ravvisare alcuna abnormità.

2. Avverso la prefata sentenza ricorre il Romagnoli, deducendo due motivi di  lagnanza.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di  motivazione in ordine alla responsabilità dell’imputato, sotto diversi profili. Dopo  avere ribadito che l’Andreoli, in occasione dell’infortunio, aveva violato la  procedura prevista per l’operazione di stampaggio su pressa, il deducente  evidenzia come la Corte di merito abbia mal interpretato le dichiarazioni del teste  Mosca, secondo il quale l’infortunio si era bensì verificato per un malfunzionamento  della macchina, ma quest’ultimo – secondo il teste – non era necessariamente  correlato a una carenza nella manutenzione del macchinario stesso, potendo  essere legato a difetti tecnici, o a una svista, o ad altre cause rimaste imprecisate.  A fronte di siffatta incertezza sulle cause dell’incidente, dovevano essere prese in  considerazione le dichiarazioni del teste a discarico Aureli, responsabile della  manutenzione delle macchine, che secondo quanto da lui affermato veniva puntualmente eseguita; peraltro tali dichiarazioni sono confermate dalla scheda manutenzioni relativa alla pressa, in base alla quale risulta che la manutenzione veniva eseguita settimanalmente e addirittura era stata effettuata il giorno prima dell’incidente. Non si vede allora a che titolo, prosegue il ricorrente, il Romagnoli debba essere chiamato a rispondere dell’accaduto per negligenza, imprudenza o imperizia o inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Il deducente conclude pertanto che l’accaduto si era verificato per un caso fortuito, o comunque per una causa non prevedibile da parte dell’imputato: il teste a discarico Pacholel, il quale aveva spesso operato su quella macchina (e delle cui dichiarazioni la Corte dorica non ha tenuto alcun conto), ha tra l’altro negato di essersi mai accorto del malfunzionamento di che trattasi, ed anzi la macchina a suo dire partiva sempre circa un secondo dopo la chiusura della protezione. Inopinatamente, la Corte di merito ha invece ritenuto attendibile la persona offesa, la quale pure aveva cambiato versione dei fatti nel corso del tempo in ordine alla dinamica dell’accaduto. In definitiva, conclude il ricorrente, il Romagnoli é stato condannato in base a un convincimento che ha posto a suo carico una sorta di responsabilità oggettiva dell’accaduto.
2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento al comportamento colpevole del lavoratore nella causazione del sinistro: comportamento che la Corte dorica ha ritenuto esente da colpe, sebbene sia stato accertato (attraverso la deposizione del teste Zare Souleymane) che egli aveva ricevuto le dovute istruzioni sul funzionamento e sulle procedure relative alla pressa. Secondo il deducente, si è al cospetto di un comportamento abnorme del lavoratore, in quanto del tutto imprevedibile e insuscettibile di controllo da parte del datore di lavoro.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso é fondato e assorbente.  E’ noto che, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto. Il principio, affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv. 261106), é stato fra l’altro richiamato in relazione a una fattispecie (Sez. 4, n. 33749 del 04/05/2017, Ghelfi, Rv. 271052) in cui la S.C. ha ritenuto logicamente fallace, perché espressione di un ragionamento “circolatorio”, la ricostruzione del nesso causale tra la condotta del datore di lavoro, consistita nell’omessa manutenzione di una macchina stampatrice, e le lesioni gravi da schiacciamento della mano occorse al lavoratore intento alla manutenzione determinate dal mancato azionamento del microinterruttore di blocco della rotazione del rullo portacliché, per effetto della rottura della linguetta metallica di attivazione, non avendo il giudice di merito chiarito le ragioni di tale rottura, la tipologia degli interventi di manutenzione omessi e se la loro esecuzione sarebbe stata in grado di evitare il malfunzionamento del dispositivo di sicurezza.
Il caso, per certi versi simile a quello che ne occupa, suggerisce tuttavia una verifica che si estenda dal profilon squisitamente causale – mercé l’indagine sul giudizio controfattuale e sul comportamento alternativo che ci si doveva attendere dal Romagnoli – alla stessa conoscibilità, prevedibilità ex ante e prevenibilità del rischio da parte dell’imputato, passando per le peculiarità che caratterizzano il caso di specie.
Orbene, riassuntivamente, la Corte dorica articola al riguardo una motivazione affatto carente, in quanto perviene apoditticamente all’affermazione di responsabilità del Romagnoli attraverso i seguenti tre passaggi: l’infortunio si é verificato per un malfunzionamento del macchinario; il malfunzionamento era dovuto a cattiva manutenzione della macchina; la cattiva manutenzione della macchina era, come tale, imputabile al datore di lavoro, ossia al Romagnoli.
Tuttavia, dei suddetti tre passaggi, solo il primo risulta univocamente accertato, essendo certo e incontestato che il difetto insito nel macchinario (che si metteva in movimento prima che lo sportellino di protezione si chiudesse) rappresentasse oggettivamente uno scostamento rispetto alle corrette modalità di funzionamento di tale dispositivo di sicurezza, che avrebbe dovuto consentire che la macchina si mettesse in movimento solo dopo la chiusura dello sportellino.
Sul fatto che tale malfunzionamento fosse dovuto a manutenzione, l’assunto della Corte distrettuale é assertivo, ma risulta contrastato dal contenuto della deposizione del teste di riferimento (Mosca, tecnico della prevenzione): il quale, come correttamente osservato dal ricorrente, ha individuato la carenza di manutenzione come una tra le possibili cause del difetto, ma non come la causa esclusiva. Ed é corretto il ragionamento del ricorrente secondo il quale la Corte dorica si sarebbe dovuta confrontare con i dati offerti dal teste a discarico Aureli sulla regolarità delle manutenzioni del macchinario, dati riscontrati dalla scheda di manutenzione della macchina, in base alla quale risulta che addirittura la manutenzione venne effettuata anche il giorno prima.
Ma, anche volendo ipotizzare che effettivamente vi fosse stato un difetto di manutenzione tale da impedire che venisse corretto il malfunzionamento del dispositivo di sicurezza, occorrerebbe poi – e siamo al terzo passaggio – accertare che di tale difetto di manutenzione debba rispondere il datore di lavoro. Per far ciò occorrerebbe però verificare se le eventuali carenze nella manutenzione del macchinario fossero conosciute o conoscibili da parte del Romagnoli, nella sua qualità datoriale.
Orbene, al riguardo la Corte territoriale nulla dice, contentandosi di porre a carico dell’imputato il difetto di manutenzione in quanto condotta omissiva ascrivibile al datore di lavoro. Eppure, risulta che egli avesse designato un responsabile per la manutenzione delle macchine (nella persona dell’Aureli, chiamato a deporre come teste a discarico) e che fosse disponibile una scheda manutenzione indicante che tale operazione veniva eseguita con frequenza settimanale; non risulta, viceversa, che l’inconveniente al dispositivo di sicurezza alla base dell’infortunio si fosse mai precedentemente verificato.
Ora, non è esatto evocare nel caso di specie l’ipotesi del “caso fortuito”, che appresenta il fatto, imprevisto e imprevedibile, estraneo a ogni possibile riferibilità soggettiva; così come non é neppure corretto evocare il comportamento “abnorme” della persona offesa, alla luce del principio, affermato dalla sentenza a Sezioni Unite n. 38343/2014 (Espenhahn ed altri, c.d. sentenza Thyssenkrupp), in base al quale, in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, é necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (negli stessi termini vds. anche Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016 – dep. 2017, Gerosa e altri, Rv. 269603; cfr. in termini sostanzialmente identici Sez. 4, n. 15174 del 13/12/2017 – dep. 2018, Spina e altro, Rv. 273247); a fronte di ciò, é di tutta evidenza che nell’ambito di tale sfera di rischio rientrava anche la circostanza che l’operatore, nell’inserire gli elementi in plastica sotto la pressa, posizionasse la mano e il braccio all’interno di macchinari pericolosi.
Ma, a parte tali profili, resta il fatto che la Corte dorica non ha argomentato, ma ha meramente asserito, che il presunto – e non dimostrato – difetto di manutenzione fosse tale da conclamare la responsabilità datoriale, senza alcuna disamina in ordine alla conoscibilità di tale difetto e, conseguentemente, alla concreta prevedibilità ex ante,da parte dell’odierno ricorrente, del verificarsi di un infortunio del tipo di quello occorso alla persona offesa, nonché alla possibilità di disporre un apposito intervento per prevenire ed evitare simili eventi, in presenza di compiti di manutenzione che risultavano comunque affidati a soggetto fiduciario appositamente individuato (l’Aureli) ed assolti con la dovuta frequenza; e non essendo emersi precedenti, analoghi episodi di malfunzionamento.

2. La sentenza impugnata va perciò annullata con rinvio alla Corte d’appello di Perugia per nuovo giudizio, nel quale la predetta Corte si atterrà ai principi dianzi ricordati.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte d’appello
di Perugia.
Così deciso in Roma il 20 febbraio 2020.

 

avvocato di giuliomaria

CONTAGIO DA COVID-19 NEI LUOGHI DI LAVORO.

OBBLIGHI E RESPONSABILITA’ PENALE DEL DATORE DI LAVORO

L’emergenza sanitaria in atto pone importanti problematiche sul piano della prevenzione dei rischi nei luoghi di lavoro, con particolare riferimento alla tutela della salute dei lavoratori e ai corrispondenti obblighi e responsabilità dell’imprenditore.
Le aziende si trovano di fronte alla difficile gestione del rischio di contagio intraziendale da Covid-19. Tale situazione riguarda tanto le aziende oggi operative – perché attive nei settori individuati come essenziali o perché rientranti nella categoria delle c.d filiere essenziali – quanto quelle che dovranno riprendere – si spera in un futuro molto prossimo – la loro attività.
La complessità della problematica impedisce il ricorso agli strumenti classici della gestione della sicurezza sul luogo di lavoro attraverso le ordinarie figure professionali a ciò preposte.
Ed invero, il rischio di contagio da Covid-19 è stato qualificato come un rischio biologico ambientale che va a coinvolgere qualunque luogo – lavorativo e non – che implichi la concentrazione di più persone. Pertanto, si traduce in un rischio estraneo all’attività lavorativa, muovendo da fattori esterni non direttamente governabili dal datore di lavoro in quanto presente in tutti i contesti sociali.
Possiamo, quindi, trarre una prima conclusione rispetto alle premesse fatte: la natura di rischio generico esclude che il datore di lavoro debba aggiornare o integrare il Documento di valutazione dei rischi (DVR), il quale rappresenta – in base al D. Lvo. 81/2008 (TU salute e sicurezza) – lo strumento preposto alla prevenzione dei rischi endogeni, ovvero direttamente connessi alla attività lavorativa posta in essere.
L’assenza di un obbligo di integrazione, tuttavia, non esime il datore di lavoro dal tutelare la salute dei propri dipendenti e dall’attivarsi al fine di contenere il rischio da contagio.

Sul datore di lavoro, infatti, grava una posizione di garanzia in ordine a tutti i rischi – siano essi connessi all’attività lavorativa o scaturenti da fattori esterni ed estranei al processo produttivo – che trova la sua fonte normativa nell’art. 2087 del codice civile a norma del quale: “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
La posizione di garanzia espone il datore di lavoro – nel caso in cui questi non si sia attivato o lo abbia fatto in maniera insufficiente e si sia verificato un caso di contagio intraziendale – alla possibile contestazione di reati quali le lesioni colpose o, nei casi più gravi, l’omicidio colposo.
L’imprenditore, quindi, dovrà attivarsi al fine di contenere il rischio di contagio nell’area del c.d. rischio consentito, vale a dire assicurare ai propri lavoratori di operare in un contesto che garantisca un livello di sicurezza quantomeno pari a quello esterno.
Il Governo, di concerto con le associazioni di categoria, in data 14 marzo 2020, ha redatto e sottoscritto un Protocollo recante la “regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro non sanitari”.
Il Protocollo rappresenta un indispensabile strumento per il datore di lavoro in quanto fornisce le linee guida necessarie per la predisposizione delle misure atte a contenere il rischio epidemiologico, esonerandolo, in ambito civilistico, dalla prova diabolica di aver fatto tutto quanto necessario a garantire la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, così come richiesta dal paradigma normativo generale di cui all’art. 2087 c.c., già citato.
Tuttavia, non esime lo stesso dall’adottare ulteriori precauzioni nel caso in cui la concreta e specifica organizzazione aziendale lo richieda.
La condotta attiva richiesta al datore di lavoro non è di facile realizzazione. L’adeguamento al Protocollo, infatti, investe ambiti eterogenei che andranno regolamentati bilanciando tutti i diritti e le esigenze presenti nella realtà aziendale.

Sarà, quindi, necessario predisporre le misure necessarie a prevenire il rischio di contagio da Covid-19 così da tutelare la salute dei lavoratori e scongiurare possibili contestazioni di natura penale, il tutto garantendo, comunque, la produttività, le dinamiche aziendali, i diritti dei lavoratori. Infatti, un Protocollo estremamente rigido che non tenga conto delle specificità dell’azienda, potrebbe risolversi in una sostanziale paralisi dell’attività produttiva e determinare la lesione dei diritti dei lavoratori contenuti nei contratti individuali e collettivi.
Di qui, la necessità del coinvolgimento di più professionisti specializzati in diversi settori.
L’adeguamento al Protocollo, affinché persegua tanto l’obiettivo di tutelare la salute dei lavoratori quanto quello di scongiurare il rischio di una contestazione penale, deve essere procedimentalizzato avendo in considerazione le caratteristiche della singola realtà aziendale interessata, creando modelli organizzativi ad hoc capaci di garantirne efficacia, rispetto e controllo. La necessità di tracciare gli interventi posti in essere è stata richiamata anche dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro che in una nota ha fatto esplicito riferimento all’importanza di “formalizzare l’azione del datore di lavoro con atti che diano conto dell’attenzione posta al problema in termini di misure, comunque adottate ed adottabili dal punto di vista tecnico, organizzativo e procedurale, nonché dei DPI ritenuti necessari, in attuazione delle indicazioni nazionali, regionali e locali delle istituzioni a ciò preposte”.
Un Protocollo “cucito” sulle peculiarità della singola azienda – il cui rispetto sia garantito dagli organi interni debitamente costituiti – riduce, indubbiamente, il rischio penale. Infatti, l’adozione scrupolosa di un Protocollo ad hoc rappresenta un notevole ostacolo per la costruzione di una contestazione penale, rispetto alla quale la Pubblica Accusa, oltre a dimostrare che il contagio si sia verificato in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa dovrà, altresì, provare che lo stesso abbia avuto origine da una “falla” nella procedura adottata.

L’eterogeneità e complessità delle criticità sopra richiamate escludono la possibilità di approcciarsi alla problematica con superficialità (veicolando, a titolo esemplificativo, alcune regole attraverso mere comunicazioni interne) o di avvalersi, esclusivamente delle canoniche figure di riferimento, necessitando, al contrario, la sinergia di più competenze capaci di sintetizzare in un unico documento tutti i profili di interesse.
Da ultimo, l’eccezionalità della situazione unita alla assoluta assenza di precedenti fa sì che, anche dopo la predisposizione dei modelli, l’imprenditore necessiti di un continuo confronto con i professionisti, al fine di ponderare al meglio le singole determinazioni a fronte di una infinita casistica di possibili evenienze che possono darsi nella concreta gestione della vita aziendale.

Pisa, 9 aprile 2020

Avv. Andrea Di Giuliomaria

L’emergenza sanitaria in atto presenta importanti risvolti anche sul piano della prevenzione dei rischi nell’ambiente lavorativo ed, in particolare, con riguardo alla tutela della salute dei lavoratori e ai corrispondenti obblighi e responsabilità del datore di lavoro.
II rischio di contagio da Covid-19, infatti, costituisce un rischio ambientale che riguarda l’intera popolazione ed ogni contesto sociale e, dunque, anche quello lavorativo, in quanto anche i luoghi di lavoro – posta la concentrazione di più persone nel medesimo luogo – rappresentano una delle principali occasioni di trasmissione del virus.
Vi è da chiedersi, quindi, se ed in quale misura, rispetto a questa nuova e sconosciuta pandemia, il datore di lavoro – quale soggetto che ricopre sempre una posizione di garanzia a tutela dei propri dipendenti per ogni rischio connesso all’organizzazione del lavoro ed alle mansioni in concreto affidate ai singoli lavoratori – debba implementare le azioni volte a scongiurare il contagio e la diffusione del virus all’interno della popolazione aziendale.
Il problema si pone, oggi, per le aziende che operano nei settori c.d. essenziali che continuano ad essere operative, ma riguarderà – si auspica – nel prossimo futuro, anche le realtà economiche oggi sospese che, più o meno gradualmente, riprenderanno la propria attività.
Il quesito trova risposta nell’art. 2087 del codice civile a norma del quale: “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Si tratta di norma di portata generale e di chiusura del sistema prevenzionistico che, a mente della ormai consolidata giurisprudenza, impone al datore di lavoro di farsi garante dell’incolumità del lavoratore, prevedendo in capo al medesimo un generale dovere di sicurezza. Il datore di lavoro, dunque, dovrà predisporre le misure idonee a prevenire tutti i rischi connessi all’attività lavorativa anche quelli derivanti da fattori esterni ed estranei al processo produttivo.
Si può, dunque, affermare che è indubbio che sul datore di lavoro gravi una posizione di garanzia anche in ordine al rischio di contagio da Covid-19.
L’eccezionalità della situazione contingente, l’elevato grado di diffusione, la probabilità di dover ricorrere a cure ospedaliere (in un numero che “intaserebbe” – o meglio – che ha già “intasato” l’intero sistema sanitario), nonché il tasso di mortalità, hanno indotto – come noto – il Governo ad imporre ai consociati determinati comportamenti e ad adottare specifiche misure di prevenzione.
Ebbene, il buon senso prima, il diritto poi, impongono che l’ambiente di lavoro non possa rappresentare una zona franca, ovvero un luogo ove il rischio di contagio sia superiore a quello socialmente accettato.
Ne consegue che se è pur vero che il rischio di contagio da Covid-19 non rientri tra quelli “controllabili” dal datore di lavoro è, altresì, vero, che questi, deve garantire ai propri lavoratori di operare in un contesto che garantisca un livello di sicurezza quantomeno pari a quello esterno.
Il datore di lavoro dovrà, dunque, approntare tutte le misure e i dispositivi di sicurezza necessari a ricondurre e contenere il rischio da contagio all’interno dalla c.d categoria del “rischio consentito”.
Quindi, la posizione di garanzia in capo al datore di lavoro si rinviene nel codice civile e la categoria del rischio consentito ne delimita i confini, superati i quali null’altro può essere preteso dal datore di lavoro.
In tale contesto, si è posto l’ulteriore interrogativo se sussista o meno l’obbligo per il datore di lavoro di aggiornare il Documento di valutazione dei rischi (DVR) in seguito all’insorgenza dell’emergenza sanitaria in atto, posto che la mancata adozione/aggiornamento del documento in parola è sanzionata da fattispecie penali contravvenzionali previste dal Testo Unico 81/2008 (di seguito indicato come Testo Unico salute e sicurezza).
Ed invero, il Covid-19 è stato qualificato quale rischio di natura biologica generico. Per rischio generico si intende quel rischio non connaturato all’attività lavorativa stricto sensu intesa, ma derivante da fattori esterni non governabili dal datore di lavoro e presente in tutti i contesti sociali, lavorativi e non. A tale rischio, dunque, il lavoratore è esposto tanto nel luogo di lavoro quanto in qualsiasi altro contesto sociale che determini il contatto con altri soggetti. In questa prospettiva il luogo di lavoro rappresenta, dunque, una ulteriore occasione ove il lavoratore può contrarre il virus.
Il rischio generico va distinto da quello specifico o c.d. endogeno che, al contrario del primo, è direttamente connesso alla mansione lavorativa posta in essere, vale a dire strettamente connaturato all’attività svolta. In questo ultimo caso, l’ambiente di lavoro figura quale fattore che introduce o dilata l’area di rischio.
Tra i rischi oggetto di obbligatoria valutazione, alla luce del Testo Unico salute e sicurezza, figura anche la categoria del rischio biologico nella quale, come anticipato, vi rientra anche il Covid-19.
Si potrebbe, quindi, essere indotti a ritenere che la nuova pandemia imponga al datore di lavoro di integrare ed aggiornare il DVR.
La questione è diffusamente discussa tra i tecnici e gli operatori di settore e trova soluzioni non sempre univoche.
Invero, da un’attenta lettura del Testo Unico salute e sicurezza, si evince che la redazione del DVR attenga esclusivamente a quelli connaturati all’attività lavorativa ed al processo produttivo ed impone al datore di lavoro di predisporre misure di prevenzione necessarie a prevenire detti rischi.
É sotto questa luce che va interpretato il rischio biologico generico, che quando non connesso all’attività lavorativa, esula da quello che è il contenuto obbligatorio del DVR.
Ne consegue che l’obbligo di aggiornamento del DVR riguardi esclusivamente quelle attività ove il rischio biologico sia un rischio professionale, endogeno, che trova la sua fonte direttamente nell’attività concretamente svolta. Tra queste rientrano, a titolo esemplificativo, le attività in cui si fa un utilizzo deliberato di agenti biologici o in cui si ha una possibilità di esposizione connaturata alla tipologia dell’attività svolta, dunque, ambienti sanitari, socio-sanitari o laboratori di ricerca.
Al contrario, in relazione a tutti gli ambienti lavorativi non sanitari, dove il rischio biologico è esclusivamente generico, esogeno, non sussiste l’obbligo di aggiornamento del DVR.
A tali conclusioni sono pervenute anche alcune Regioni, quali ad esempio la Regione Veneto (tra le prime ad affrontare l’emergenza) oltre all’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la circolare del 13 marzo 2020.
Possiamo trarre una prima conclusione che solo apparentemente sembrerebbe dare luogo ad una dicotomia: il datore di lavoro è tenuto a tutelare i propri dipendenti dal rischio di contagio apprestando tutte le misure di sicurezza necessarie a ridurre detto rischio, tuttavia, non ha alcun obbligo di aggiornamento del DVR, qualora, lo si ribadisce, si verta in ambienti di lavoro non sanitario.
L’adempimento di tali obblighi – pur non comprendendo una nuova valutazione dei rischi con la conseguente sanzione nel caso di omissione – richiede, in ogni caso, una condotta attiva da parte del datore di lavoro nella predisposizione di misure concrete tese a contenere il rischio di contagio, allineandosi alle raccomandazioni impartite dalle autorità a livello nazionale e regionale.
Quanto alle misure da adottare concretamente, la normativa emergenziale ha introdotto una serie di raccomandazioni rivolte a tutte le attività produttive industriali e commerciali, raccomandazioni che hanno trovato specifica attuazione nel Protocollo firmato in data 14 marzo 2020, sottoscritto da Governo, organizzazioni datoriali e sindacali recante la “regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro non sanitari”.
Per scongiurare la diffusione del contagio, il Governo, con più decreti, ha sospeso tutte le attività commerciali, produttive e industriali, salvo quelle ritenute essenziali, di cui al tassativo elenco contenuto nell’allegato al dpcm 22 marzo 2020 n.6 come modificato dal decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 25 marzo 2020.
Accanto ad esse, residuano attività che possono non essere sospese in quanto ritenute collaterali o a servizio delle prime, a condizione però che l’azienda offra garanzia di rispetto delle norme di sicurezza anticontagio.
In tal caso la possibilità di esercizio dell’attività è condizionata ad una comunicazione/autorizzazione amministrativa volta a consentire la continuità produttiva delle aziende appartenenti alla filiera delle c.d. attività essenziali, previa verifica del rispetto delle condizioni di sicurezza.
Lo stesso dpcm, poi, all’art. 3 codifica – per tutte le imprese le cui attività non siano sospese (perché rientranti nelle attività di cui all’allegato 1 oppure perché autorizzate dall’Autorità prefettizia) – in cosa consista lo specifico obbligo di sicurezza, mediante il richiamo alla obbligatorietà del rispetto dei contenuti del Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali.
É indubbio, quindi, che il Protocollo rappresenti un indispensabile strumento per il datore di lavoro in quanto fornisce le linee guida necessarie per la predisposizione delle misure atte a contenere il rischio epidemiologico, esonerandolo, in ambito civilistico, dalla prova diabolica di aver fatto tutto quanto necessario a garantire la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, così come richiesta dal paradigma normativo generale di cui all’art. 2087 c.c., già citato.
Tuttavia, non esime lo stesso dall’adottare ulteriori precauzioni nel caso in cui la concreta e specifica organizzazione aziendale lo richieda.
Senza alcuna pretesa di esaustività, il Protocollo, richiamando le raccomandazioni del dpcm 11 marzo 2020, elenca le seguenti attività che devono essere regolamentate per le finalità di prevenzione:

  • le modalità di ingresso ed uscita dei dipendenti dall’azienda e di accesso dei fornitori esterni, la gestione degli spazi comuni (mensa, spogliatoi, aree fumatori, distributori di bevande e snack ecc…), gli spostamenti interni, le riunioni, gli eventi e la formazione oltre l’organizzazione aziendale (turnazioni, trasferte, smart work e rimodulazione dei livelli produttivi);
  • l’igiene personale di ciascun lavoratore e la pulizia e sanificazione dell’azienda;
  • la fornitura di dispositivi di protezione individuale;
  • la sorveglianza sanitaria e la gestione di soggetto sintomatico nell’ambiente di lavoro;
  • l’informazione nei confronti dei dipendenti;
  • la costituzione in azienda di un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del RLS.

Vi è poi da chiarire come veicolare all’interno della realtà aziendale le linee guida adottate nel Protocollo e, quindi, individuare le modalità concrete con cui il datore di lavoro possa scongiurare sia il rischio di contagio sia quello di una eventuale contestazione penale.
Va chiarito, infatti, che una volta stabilito che sussiste una posizione di garanzia in capo al datore di lavoro in relazione al rischio di contagio dei propri dipendenti, nel caso in cui questi non si sia attivato e si verifichi l’evento da scongiurare (rectius contagio), può vedersi contestati reati quali le lesioni colpose o – nei casi più gravi – l’omicidio colposo.
Strumento privilegiato in tale senso è indubbiamente rappresentato dai modelli organizzativi di cui al D. Lvo. 231/2001 che andrebbero adottati o aggiornati rispetto alla nuova emergenza epidemiologica. Questo tipo di strumento ha il pregio di apprestare una tutela giuridica non solo al datore di lavoro ma anche all’Ente.
Tuttavia, in assenza di modelli organizzativi 231 residuano altre possibilità che, se non coprono una eventuale responsabilità dell’Ente, ben posso essere utilmente spese per evitare possibili future contestazioni al datore di lavoro.
Un ottimo spunto di riflessione viene offerto dalla già citata circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ove si legge: “è consigliabile formalizzare l’azione del datore di lavoro con atti che diano conto dell’attenzione posta al problema in termini di misure, comunque adottate ed adottabili dal punto di vista tecnico, organizzativo e procedurale, nonché dei DPI ritenuti necessari, in attuazione delle indicazioni nazionali, regionali e locali delle istituzioni a ciò preposte. Per la tracciabilità delle azioni così messe in campo è opportuno che dette misure, pur non originando dalla classica valutazione del rischio tipica del datore di lavoro, vengano raccolte per costituire un’appendice del DVR a dimostrazione di aver agito al meglio, anche al di là dei precetti specifici del d.lgs. n. 81/2008”.
Pertanto, il datore di lavoro, al fine di evitare future contestazioni, dovrà formalizzare le azioni poste in essere e procedimentalizzare l’adeguamento aziendale alle linee guida.
Infatti, qualora nonostante l’adeguamento e la procedimentalizzazione delle linee guida, si verificasse all’interno dell’azienda un caso di contagio, la formalizzazione delle misure ed il controllo del rispetto delle medesime attesterebbero come il datore di lavoro abbia fatto tutto quanto necessario al fine di scongiurare l’evento stesso.
Da ultimo, non deve essere sottovalutato l’ulteriore profilo difensivo rappresentato dalla prova, che spetterebbe all’Accusa, della sicura riconducibilità del contagio all’interno del luogo di lavoro; qualora, questo quesito trovasse risposta affermativa, l’Accusa dovrebbe, altresì, dimostrare che il contagio intraziendale sia avvenuto in ragione di una “falla” nella predisposizione o nel controllo del rispetto delle procedure adottate.
Concludendo, gli imprenditori dovranno necessariamente attivarsi e predisporre le procedure necessarie per il contenimento del contagio intraziendale al fine di scongiurare possibili e future contestazioni sia sul piano civilistico che penalistico.

Avv. Andrea Di Giuliomaria