Articoli

In tema di reato colposo omissivo improprio, al fine di ritenere sussistente la responsabilità del medico per la morte del paziente, risulta necessario accertare in primis il rapporto di causalità tra omissione ed evento il quale non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma occorre accertare che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. In particolare, il giudizio contro-fattuale, necessario per accertare che l’azione doverosa omessa avrebbe impedito l’evento, deve fondarsi su un giudizio di alta probabilità logica, fondato non solo su affidabili informazioni scientifiche, ma anche sulle contingenze significative del caso concreto.
Nel caso di specie la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza impugnata risultando lacunosa la motivazione nella parte in cui si limitava ad affermare la sussistenza del nesso causale alla luce del mero dato statistico ed astratto, prescindendo completamente dalle peculiarità della situazione concreta.

 

Penale Sent. Sez. 4 Num. 10175 Anno 2020
Presidente: CIAMPI FRANCESCO MARIA
Relatore: PICARDI FRANCESCA
Data Udienza: 04/03/2020

 

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
BRACCHITTA SONIA nato a ROMA il 21/09/1973

avverso la sentenza del 10/09/2018 della CORTE APPELLO di ROMA

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere FRANCESCA PICARDI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore ASSUNTA COCOMELLO, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio.
Nell’interesse delle parti civili Cornacchia Luciano e Cornacchia Anna Rita è presente l’avvocato Lavigna Giuseppe del foro di ROMA che insiste per il rigetto del ricorso e deposita nota spese e conclusioni a cui si riporta.
E’ presente l’avvocato SALVATORE VOLPE del foro di Roma per la parte civile Cornacchia Vincenzo che insiste per la conferma della sentenza impugnata con rigetto del ricorso, deposita nota spese e conclusioni a cui si riporta.
E’ altresì presente l’avvocato SCALISE GAETANO ANTONIO del foro di ROMA per la ricorrente BRACCHITTA SONIA che illustra i motivi del ricorso ed insiste per l’accoglimento.
Si da atto della presenza del dott. Emanuele Acquarelli (ordine degli avvocati di Roma, n. tess. P73159) ai fini della pratica forense.

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado con cui Sonia Bracchitta è stata condannata alla pena sospesa di un anno di reclusione, oltre al risarcimento dei danni nei confronti delle parti civili, per il reato di cui all’art. 589 cod.pen., perché, nella sua qualità di medico in servizio presso il reparto di cardiologia dell’ospedale israelitico, che ebbe ad occuparsi della paziente Lidia Angelini, ne cagionava il decesso in data 10 novembre 2012, a causa di insufficienza cardiocircolatoria acuta da trombo embolia polmonare massiva per trombosi venosa profonda, con colpa consistita in imprudenza e negligenza e più precisamente nell’omessa prescrizione e somministrazione di adeguata terapia profilattica antitrombotica a base di derivati eparinici – terapia che, se tempestivamente somministrata sin dal 4 novembre 2012 avrebbe potuto scongiurare l’evento

2. Avverso tale sentenza ha proposto tempestivo ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore, l’imputata che ha dedotto 1) la lacuna motivazionale in ordine alla prima censura di appello sulla causa del decesso che, come emerso nell’istruttoria, non può escludersi dovuto ad un’embolia autoctona della vena cava invece che ad una trombosi venosa profonda negli arti inferiori e, cioè, ad un evento imprevedibile ed inevitabile o, comunque, non collegabile ad una propria condotta omissiva, come spiegato dai consulenti della difesa Prof. Pierluigi Artignani e dott.ssa Rosanna Cecchi; 2) la radicale carenza di motivazione e l’errata interpretazione dell’art. 40 cod.pen. in ordine all’assunzione di una posizione di garanzia da parte propria nei confronti della vittima, essendo Sonia Bracchitta un consulente con contratto di 22 ore settimanali presso l’ospedale israelitico, che si è limitata a visitare la paziente solo nelle ore mattutine dal 5 novembre 2012 all’8 novembre 2012 ed il 9 novembre 2012 unitamente alla dott.ssa Lucianetti, mentre non era nemmeno presente il giorno del ricovero 4 novembre 2012; 3) il vizio motivazionale e l’inosservanza degli artt. 40, secondo comma, e 590 cod.pen., non essendo stato accertato, con un necessario giudizio contro-fattuale, se e con quali probabilità la somministrazione di eparina avrebbe impedito la morte della vittima (gli stessi consulenti del P.M., nei chiarimenti a margine della loro relazione, a p. 7, hanno precisato che anche il metodo di profilassi più efficace e correttamente impiegato non è in grado di annullare il rischio TEV) e soprattutto non essendo stato accertato quando sarebbero insorte le condizioni che avrebbero giustificato la terapia anti-trombosi, consistenti nella persistenza, per un periodo superiore a tre giorni, di una situazione di immobilità o ipomobilità (situazione, peraltro, esclusa dal perito di ufficio, sulla base dei dati riportati in cartella clinica), e non essendosi tenuto conto del rischio emorragico concreto a cui era soggetta Lidia Angelini,
in ragione dell’anemia sideropenica aggravata dalla perdita, durante il ricovero, di un 1 grammo di emoglubina, delle tracce di sangue nelle urine, della dolorabilità in epigastrio, che lasciava presupporre una gastrite erosiva o una lesione ulcerosa gastrica, sicché non può affatto affermarsi che fosse doveroso prescrivere la terapia eparinica e che la relativa omissione fosse rimproverabile; 4) la violazione dell’art. 603, secondo e terzo comma, cod.proc.pen., e la carenza motivazionale in ordine alla mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, tramite nomina di un altro perito – rinnovazione necessaria al fine di disattendere le difformi conclusioni del perito d’ufficio già nominato; 5) la violazione dell’art. 3, primo comma, I. n. 189 del 2012, atteso che la eventuale colpa configurabile deve qualificarsi come lieve, non essendo certa la situazione di ipomobilità/immobilità e considerato il rischio concreto emorragico presente; 6) l’erronea applicazione dell’art. 62-bis cod.pen. essendo state negate con motivazione apodittica le attenuanti generiche.
In data 24 gennaio 2020 risulta depositata ulteriore memoria difensiva dell’imputata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.11 ricorso merita accoglimento.

2. Il primo motivo, avente ad oggetto il vizio motivazionale in ordine alla causa del decesso di Lidia Angelini, che, nella prospettazione della difesa potrebbe essere collegato ad un’embolia autoctona della vena cava invece che ad una trombosi venosa profonda negli arti inferiori, non può essere accolto, atteso che le argomentazioni sul punto del giudice di primo grado, le quali, versandosi in una ipotesi di doppia conforme di condanna, integrano la sentenza impugnata, sono esaustive, non manifestamente illogiche e non presentano alcuna contraddizione con le prove acquisite, su cui, al contrario, si fondano. In particolare, nella sentenza del Tribunale di Roma, si legge a p. 3 che, come precisato dal consulente della difesa Prof. Pierluigi Artignani, le trombosi autoctone a livello cavale o polmonare sono connesse a patologie particolari, quali, ad esempio, neoplasie, e, come precisato dall’altro consulente della difesa dott.ssa Rosanna Cecchi, non vi sono, nel caso di specie, elementi che inducano a ritenere possibile una trombosi autoctona. Il giudice di primo grado ha, dunque, in modo coerente con il quadro probatorio, identificato la causa del decesso in una trombosi profonda venosa, del tutto prevedibile ed evitabile, sottolineando l’irrilevanza, ai fini della individuazione della colpa dell’imputata, dell’esatta individuazione del distretto in cu si è formato il trombo.

3. Pure la seconda censura, avente ad oggetto la posizione di garanzia dell’imputata nei confronti della vittima, è destituita di fondamento.

In primo luogo l’assunzione della posizione di garanzia di un soggetto dipende dall’attività svolta e dai rapporti instaurati rispetto alla vittima, mentre non può essere influenza dal tipo di rapporto contrattuale intercorso con un terzo. Difatti, la giurisprudenza di legittimità ha affermato, proprio in tema di colpa professionale del medico, che il concreto e personale espletamento di attività da parte dello specializzando comporta pur sempre l’assunzione diretta, da parte sua, della posizione di garanzia nei confronti del paziente, condivisa con quella che fa capo a chi le direttive impartisce, secondo i rispettivi ambiti di pertinenza e di incidenza (così già Sez. 4,n. 32901 del 20/01/2004 Ud., dep. 29/07/2004, Rv. 229069 – 01; più recentemente Sez. 4 n. 6215 del 10/12/2009 ud.- dep. 16/02/2010, Rv. 246419 – 01).

Nella sentenza di primo grado si è, del resto, precisato, in modo dettagliato e diffuso, che il medico che ha seguito la paziente, visitandola tutti i giorni dal 5 al 9 novembre 2012, è stata la dott.ssa Sonia Bracchitta, in quanto la dott.ssa Lucianetti è stata in ferie sino al giorno 6 novembre 2012 e non era presente in reparto il 7 e 8 novembre 2012, in quanto addetta all’ambulatorio, sicché, pur in assenza di un’assegnazione formale, non può escludersi l’assunzione, da parte dell’imputata, di una posizione di garanzia di fatto, conformemente al principio secondo cui, in tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante purchè l’agente assuma la gestione dello specifico rischio mediante un comportamento concludente, consistente nella presa in carico del bene protetto (Sez. 4, n. 37224 del 05/06/2019 ud. – dep. 06/09/2019, Rv. 277629 – 01).

4. E’, invece, fondata la terza doglianza, avente ad oggetto il vizio motivazionale e la violazione dell’art. 40 cod.pen. in ordine alla sussistenza del nesso di causalità, che è stato affermato in assenza di un adeguato giudizio contro-fattuale, ed in ordine all’effettiva doverosità della somministrazione dell’eparina, che è stata ritenuta escludendo, in modo illogico e contraddittorio, il rischio emorragico allegato dalla difesa.
Al fine di affrontare correttamente la doglianza in esame, occorre premettere che, come noto, nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva, mentre l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del nesso causale tra condotta ed evento, e cioè il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell’omissione dell’agente rispetto ad
altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo comportano l’esito assolutorio del giudizio (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002 ud. – dep. 11/09/2002, Rv. 222139 – 01).
Si è, tuttavia precisato che il meccanismo controfattuale, necessario per stabilire l’effettivo rilievo condizionante della condotta umana (nella specie: l’effetto salvifico delle cure omesse), deve fondare non solo su affidabili informazioni scientifiche ma anche sulle contingenze significative del caso concreto, dovendosi comprendere: a) qual è solitamente l’andamento della patologia in concreto accertata; b) qual è normalmente l’efficacia delle terapie; c) quali sono i fattori che solitamente influenzano il successo degli sforzi terapeutici (Sez. 4 n. 32121 del 16/06/2010 ud. – dep. 20/08/2010, Rv. 248210 – 01 che ha aggiunto che, sulla base di tali elementi, l’esistenza del nesso causale può essere ritenuta quando l’effetto salvifico dei trattamenti terapeutici non compiuti sia caratterizzata da elevata probabilità logica, ovvero sia fortemente corroborata alla luce delle informazioni scientifiche e fattuali disponibili). Più recentemente Sez. 4, n. 10615 del 04/12/2012 ud. – dep. 07/03/2013, Rv. 256337 – 01, nel riaffermare lo stesso principio e, cioè, che il meccanismo controfattuale, necessario per stabilire l’effettivo rilievo condizionante della condotta umana ovvero l’effetto salvifico delle cure omesse, deve fondare su affidabili informazioni scientifiche nonché sulle contingenze significative del caso concreto, ha annullato la sentenza di merito per carenze motivazionali in ordine all’individuazione dell’esistenza del nesso causale fra la condotta omissiva e l’evento, in quanto non era stata valutata in concreto l’efficacia salvifica delle cure omesse.
Nel caso in esame, come già osservato relativamente alla prima censura, i giudici di merito hanno, in modo ineccepibile, escluso una trombosi autoctona ovvero un decorso causale alternativo ed imprevedibile.
Tuttavia, in ordine all’effetto salvifico della condotta omessa (prescrizione dell’eparina), nella sentenza di primo grado, a p. 21, si legge che, “ipotizzata come realizzata la condotta doverosa omessa, ossia ipotizzando che alla Angelini fosse stata somministrata eparina sin dal giorno 7 novembre (quarto giorno successivo all’inizio dell’ipomobilità), si sarebbe significativamente ridotto il rischio del verificarsi della complicanza trombo-embolica, in quanto la terapia in esame è finalizzata proprio, nei pazienti ospedalizzati a mobilità ridotta, e con altri fattori di rischio, nel caso di specie presenti (età avanzata ed obesità), ad evitare la formazione dei trombi”. Tale conclusione si raccorda con le indicazioni dei consulenti dell’accusa, riportate a p. 11, secondo i quali, “fermo restando che anche il metodo più efficace e correttamente impiegato di profilassi non è in grado di annullare il rischio di trombosi venosa profonda”, l’adeguata terapia avrebbe avuto “una significativa probabilità di evitare l’evento tromboembolitico polmonare e conseguentemente il decesso della paziente”. Nella sentenza di appello a p. 3 si legge che la condotta doverosa avrebbe certamente evitato l’evento mortale, spiegandosi a p. 4 che “la terapia non somministrata nei pazienti ospedalizzati a mobilità ridotta e con altri fattori di rischio è mirata proprio a evitare la formazione di trombi e a ridurre in modo efficace il rischio della complicanza trombo embolia”.
Alla luce dei principi già evidenziati, che impongono di verificare, in base al meccanismo contro-fattuale, che l’azione (doverosa) omessa avrebbe impedito l’evento, secondo un giudizio di alta probabilità logica, fondato non solo su affidabili informazioni scientifiche, ma anche sulle contingenze significative del caso concreto, tale motivazione risulta lacunosa nella parte in cui si limita ad affermare la sussistenza del nesso causale alla luce del mero dato statistico ed astratto, prescindendo completamente dalla situazione concreta e, cioè, dalle condizioni specifiche della paziente (età ed altre patologie accertate e risultanti in modo certo e chiaro dalle sentenze di merito, tra cui la sincope che aveva determinato il ricovero, il diabete mellito di tipo 2, la gastrite cronica, la ipertensione), dal lasso temporale intercorso dal momento in cui sarebbe insorta la doverosità della terapia antitrombotica ed il momento del decesso (momento in cui è insorta la doverosità della terapia antitrombotica: 7 novembre 2012 e, cioè, terzo giorno dopo il ricovero, caratterizzato dalla mobilità ridotta della paziente, che era, invece, stata valutata come autonoma nel momento dell’ingresso in ospedale il 4 novembre 2012, v. sentenza di primo grado; momento del decesso: 10 novembre, ore 6,00); dai tempi ordinari e specifici di efficacia della terapia omessa; dalla stessa evoluzione della patologia trombotica e dall’analisi del relativo grado di gravità al momento in cui si sarebbe dovuta
iniziare la terapia omessa.

A ciò si aggiunga, inoltre, che la motivazione è lacunosa anche in ordine all’individuazione dell’effettiva elevata probabilità logica dell’efficacia salvifica delle cure omesse, individuata in termini generici nella significativa riduzione del rischio del verificarsi della complicanza tromboembolica, senza alcuna risposta alle doglianze della difesa sul punto.
A ciò si aggiunga che, pur essendosi il Tribunale lungamente soffermato sulla doverosità, nel caso concreto, di somministrare farmaci idonei a prevenire il rischio trombotico, la motivazione è esaustiva, non manifestamente illogica e priva di contraddizioni, alla luce della complessa istruttoria dibattimentale e delle prove testimoniali (in particolare di quanto riferito dagli infermieri e dalla nipote della vittima), soltanto riguardo all’effettiva esistenza, in aggiunta all’età e all’obesità, dell’ulteriore fattore di rischio della complicanza trombotica della ridotta mobilità della paziente (ridotta mobilità non percepita e negata dall’imputata ed esclusa anche dal perito nominato il quale, tuttavia, ha fondato il suo giudizio esclusivamente sulle prove documentali). Al contrario, il Tribunale e la Corte di appello hanno escluso (il primo a p. 12 ed il secondo a p. 2), in modo illogico e contraddittorio, il rischio emorragico, allegato dalla difesa. Più precisamente, il Tribunale ha riportato le valutazione del consulente della difesa, dott.ssa Cecchi, secondo cui l’anemia sideropenica, la gastrite cronica, l’insufficienza renale moderata costituivano degli elementi ostativi ad una terapia anti-coagulante, rendendo il rischio emorragico superiore a quello trombotico, e la premessa dei consulenti della pubblica accusa, secondo cui la decisione di iniziare la terapia antitrombotica si basa sempre su una valutazione individuale del rapporto rischio emorragico/trombotico, ma ha, poi, escluso il rischio emorragico in adesione alle indicazioni dei consulenti della pubblica accusa fondate sulle linee guida del 2011, che indicano alcune della situazioni a cui si associa il rischio emorragico. Le linee guida non possono, tuttavia, escludere che il medico, alla luce della condizione specifica della paziente, individui altri elementi concretamente sintomatici del rischio emorragico. A conferma di ciò, è sufficiente richiamare l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di responsabilità medica, il rispetto di linee guida accreditate presso la comunità scientifica non determina, di per sé, l’esonero dalla responsabilità penale del sanitario ai sensi dell’art. 3 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (conv. in legge 8 novembre 2012, n. 189), dovendo comunque accertarsi se la specificità del quadro clinico del paziente imponesse un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato da dette linee guida (Sez. 4, n. 244555 del 22/04/2015 ud.- dep. 08/06/2015, Rv. 263732 – 01).
Da tale premessa deriva, dunque, che, a fronte di due pareri discordanti dei consulenti dell’accusa e della difesa su circostanze non espressamente valutate dalle linee guida, ma che hanno, tuttavia, caratterizzato il caso esaminato dal medico, la decisione dei giudici di merito che scelga tra le due posizioni non può fondarsi sul mero rinvio alle linee guida, che non contemplano e non valutano dette circostanze e che, proprio perché elaborate in via astratta, non possono esaurire tutte le situazioni concrete.
Il giudice di merito dovrà motivare la sua scelta tra le diverse posizioni dei tecnici in base alle leggi scientifiche adattate alle peculiarità del caso concreto, conformemente all’orientamento secondo cui, in tema di prova, in virtù del principio del libero convincimento, il giudice di merito, pur in assenza di una perizia d’ufficio, può scegliere tra le diverse tesi prospettate dai consulenti delle parti, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto con motivazione accurata ed approfondita, delle ragioni della scelta nonché del contenuto della tesi disattesa e delle deduzioni contrarie delle parti (Sez. 4, n. 8527 del 13/02/2015 ud. – dep. 25/02/2015, Rv. 263435 – 01). Né la completezza della motivazione, in ordine all’esclusione del rischio emorragico, si può rinvenire a p. 14 della sentenza di primo grado, laddove viene ritenuta generica l’allegazione difensiva relativa al dolore gastrico, perché non necessariamente sintomatico di un’ulcera duodenale (fattore di rischio emorragico secondo le linee guida), ma non si approfondiscono gli ulteriori elementi sintomatici, secondo la difesa, del rischio emorragico, indicati nell’atto di appello (in particolare p. 44) e richiamati nel ricorso per cassazione, a cui pure, in parte, si è fatto riferimento nella sentenza (ad esempio, l’anemia, secondo le indicazioni della consulente della difesa).

5. L’accoglimento della censura precedente comporta l’assorbimento di tutti i residui motivi.

6. In definitiva, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte di appello di Roma.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, cui demanda anche la regolamentazione delle spese tra le parti di questo giudizio di legittimità.
Così deciso 4 marzo 2020.
Il Consigliere estensore Il Presi
Francesca Picardi

 

avvocato di giuliomaria

CONTAGIO DA COVID-19 NEI LUOGHI DI LAVORO.

OBBLIGHI E RESPONSABILITA’ PENALE DEL DATORE DI LAVORO

L’emergenza sanitaria in atto pone importanti problematiche sul piano della prevenzione dei rischi nei luoghi di lavoro, con particolare riferimento alla tutela della salute dei lavoratori e ai corrispondenti obblighi e responsabilità dell’imprenditore.
Le aziende si trovano di fronte alla difficile gestione del rischio di contagio intraziendale da Covid-19. Tale situazione riguarda tanto le aziende oggi operative – perché attive nei settori individuati come essenziali o perché rientranti nella categoria delle c.d filiere essenziali – quanto quelle che dovranno riprendere – si spera in un futuro molto prossimo – la loro attività.
La complessità della problematica impedisce il ricorso agli strumenti classici della gestione della sicurezza sul luogo di lavoro attraverso le ordinarie figure professionali a ciò preposte.
Ed invero, il rischio di contagio da Covid-19 è stato qualificato come un rischio biologico ambientale che va a coinvolgere qualunque luogo – lavorativo e non – che implichi la concentrazione di più persone. Pertanto, si traduce in un rischio estraneo all’attività lavorativa, muovendo da fattori esterni non direttamente governabili dal datore di lavoro in quanto presente in tutti i contesti sociali.
Possiamo, quindi, trarre una prima conclusione rispetto alle premesse fatte: la natura di rischio generico esclude che il datore di lavoro debba aggiornare o integrare il Documento di valutazione dei rischi (DVR), il quale rappresenta – in base al D. Lvo. 81/2008 (TU salute e sicurezza) – lo strumento preposto alla prevenzione dei rischi endogeni, ovvero direttamente connessi alla attività lavorativa posta in essere.
L’assenza di un obbligo di integrazione, tuttavia, non esime il datore di lavoro dal tutelare la salute dei propri dipendenti e dall’attivarsi al fine di contenere il rischio da contagio.

Sul datore di lavoro, infatti, grava una posizione di garanzia in ordine a tutti i rischi – siano essi connessi all’attività lavorativa o scaturenti da fattori esterni ed estranei al processo produttivo – che trova la sua fonte normativa nell’art. 2087 del codice civile a norma del quale: “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
La posizione di garanzia espone il datore di lavoro – nel caso in cui questi non si sia attivato o lo abbia fatto in maniera insufficiente e si sia verificato un caso di contagio intraziendale – alla possibile contestazione di reati quali le lesioni colpose o, nei casi più gravi, l’omicidio colposo.
L’imprenditore, quindi, dovrà attivarsi al fine di contenere il rischio di contagio nell’area del c.d. rischio consentito, vale a dire assicurare ai propri lavoratori di operare in un contesto che garantisca un livello di sicurezza quantomeno pari a quello esterno.
Il Governo, di concerto con le associazioni di categoria, in data 14 marzo 2020, ha redatto e sottoscritto un Protocollo recante la “regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro non sanitari”.
Il Protocollo rappresenta un indispensabile strumento per il datore di lavoro in quanto fornisce le linee guida necessarie per la predisposizione delle misure atte a contenere il rischio epidemiologico, esonerandolo, in ambito civilistico, dalla prova diabolica di aver fatto tutto quanto necessario a garantire la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, così come richiesta dal paradigma normativo generale di cui all’art. 2087 c.c., già citato.
Tuttavia, non esime lo stesso dall’adottare ulteriori precauzioni nel caso in cui la concreta e specifica organizzazione aziendale lo richieda.
La condotta attiva richiesta al datore di lavoro non è di facile realizzazione. L’adeguamento al Protocollo, infatti, investe ambiti eterogenei che andranno regolamentati bilanciando tutti i diritti e le esigenze presenti nella realtà aziendale.

Sarà, quindi, necessario predisporre le misure necessarie a prevenire il rischio di contagio da Covid-19 così da tutelare la salute dei lavoratori e scongiurare possibili contestazioni di natura penale, il tutto garantendo, comunque, la produttività, le dinamiche aziendali, i diritti dei lavoratori. Infatti, un Protocollo estremamente rigido che non tenga conto delle specificità dell’azienda, potrebbe risolversi in una sostanziale paralisi dell’attività produttiva e determinare la lesione dei diritti dei lavoratori contenuti nei contratti individuali e collettivi.
Di qui, la necessità del coinvolgimento di più professionisti specializzati in diversi settori.
L’adeguamento al Protocollo, affinché persegua tanto l’obiettivo di tutelare la salute dei lavoratori quanto quello di scongiurare il rischio di una contestazione penale, deve essere procedimentalizzato avendo in considerazione le caratteristiche della singola realtà aziendale interessata, creando modelli organizzativi ad hoc capaci di garantirne efficacia, rispetto e controllo. La necessità di tracciare gli interventi posti in essere è stata richiamata anche dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro che in una nota ha fatto esplicito riferimento all’importanza di “formalizzare l’azione del datore di lavoro con atti che diano conto dell’attenzione posta al problema in termini di misure, comunque adottate ed adottabili dal punto di vista tecnico, organizzativo e procedurale, nonché dei DPI ritenuti necessari, in attuazione delle indicazioni nazionali, regionali e locali delle istituzioni a ciò preposte”.
Un Protocollo “cucito” sulle peculiarità della singola azienda – il cui rispetto sia garantito dagli organi interni debitamente costituiti – riduce, indubbiamente, il rischio penale. Infatti, l’adozione scrupolosa di un Protocollo ad hoc rappresenta un notevole ostacolo per la costruzione di una contestazione penale, rispetto alla quale la Pubblica Accusa, oltre a dimostrare che il contagio si sia verificato in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa dovrà, altresì, provare che lo stesso abbia avuto origine da una “falla” nella procedura adottata.

L’eterogeneità e complessità delle criticità sopra richiamate escludono la possibilità di approcciarsi alla problematica con superficialità (veicolando, a titolo esemplificativo, alcune regole attraverso mere comunicazioni interne) o di avvalersi, esclusivamente delle canoniche figure di riferimento, necessitando, al contrario, la sinergia di più competenze capaci di sintetizzare in un unico documento tutti i profili di interesse.
Da ultimo, l’eccezionalità della situazione unita alla assoluta assenza di precedenti fa sì che, anche dopo la predisposizione dei modelli, l’imprenditore necessiti di un continuo confronto con i professionisti, al fine di ponderare al meglio le singole determinazioni a fronte di una infinita casistica di possibili evenienze che possono darsi nella concreta gestione della vita aziendale.

Pisa, 9 aprile 2020

Avv. Andrea Di Giuliomaria

L’emergenza sanitaria in atto presenta importanti risvolti anche sul piano della prevenzione dei rischi nell’ambiente lavorativo ed, in particolare, con riguardo alla tutela della salute dei lavoratori e ai corrispondenti obblighi e responsabilità del datore di lavoro.
II rischio di contagio da Covid-19, infatti, costituisce un rischio ambientale che riguarda l’intera popolazione ed ogni contesto sociale e, dunque, anche quello lavorativo, in quanto anche i luoghi di lavoro – posta la concentrazione di più persone nel medesimo luogo – rappresentano una delle principali occasioni di trasmissione del virus.
Vi è da chiedersi, quindi, se ed in quale misura, rispetto a questa nuova e sconosciuta pandemia, il datore di lavoro – quale soggetto che ricopre sempre una posizione di garanzia a tutela dei propri dipendenti per ogni rischio connesso all’organizzazione del lavoro ed alle mansioni in concreto affidate ai singoli lavoratori – debba implementare le azioni volte a scongiurare il contagio e la diffusione del virus all’interno della popolazione aziendale.
Il problema si pone, oggi, per le aziende che operano nei settori c.d. essenziali che continuano ad essere operative, ma riguarderà – si auspica – nel prossimo futuro, anche le realtà economiche oggi sospese che, più o meno gradualmente, riprenderanno la propria attività.
Il quesito trova risposta nell’art. 2087 del codice civile a norma del quale: “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Si tratta di norma di portata generale e di chiusura del sistema prevenzionistico che, a mente della ormai consolidata giurisprudenza, impone al datore di lavoro di farsi garante dell’incolumità del lavoratore, prevedendo in capo al medesimo un generale dovere di sicurezza. Il datore di lavoro, dunque, dovrà predisporre le misure idonee a prevenire tutti i rischi connessi all’attività lavorativa anche quelli derivanti da fattori esterni ed estranei al processo produttivo.
Si può, dunque, affermare che è indubbio che sul datore di lavoro gravi una posizione di garanzia anche in ordine al rischio di contagio da Covid-19.
L’eccezionalità della situazione contingente, l’elevato grado di diffusione, la probabilità di dover ricorrere a cure ospedaliere (in un numero che “intaserebbe” – o meglio – che ha già “intasato” l’intero sistema sanitario), nonché il tasso di mortalità, hanno indotto – come noto – il Governo ad imporre ai consociati determinati comportamenti e ad adottare specifiche misure di prevenzione.
Ebbene, il buon senso prima, il diritto poi, impongono che l’ambiente di lavoro non possa rappresentare una zona franca, ovvero un luogo ove il rischio di contagio sia superiore a quello socialmente accettato.
Ne consegue che se è pur vero che il rischio di contagio da Covid-19 non rientri tra quelli “controllabili” dal datore di lavoro è, altresì, vero, che questi, deve garantire ai propri lavoratori di operare in un contesto che garantisca un livello di sicurezza quantomeno pari a quello esterno.
Il datore di lavoro dovrà, dunque, approntare tutte le misure e i dispositivi di sicurezza necessari a ricondurre e contenere il rischio da contagio all’interno dalla c.d categoria del “rischio consentito”.
Quindi, la posizione di garanzia in capo al datore di lavoro si rinviene nel codice civile e la categoria del rischio consentito ne delimita i confini, superati i quali null’altro può essere preteso dal datore di lavoro.
In tale contesto, si è posto l’ulteriore interrogativo se sussista o meno l’obbligo per il datore di lavoro di aggiornare il Documento di valutazione dei rischi (DVR) in seguito all’insorgenza dell’emergenza sanitaria in atto, posto che la mancata adozione/aggiornamento del documento in parola è sanzionata da fattispecie penali contravvenzionali previste dal Testo Unico 81/2008 (di seguito indicato come Testo Unico salute e sicurezza).
Ed invero, il Covid-19 è stato qualificato quale rischio di natura biologica generico. Per rischio generico si intende quel rischio non connaturato all’attività lavorativa stricto sensu intesa, ma derivante da fattori esterni non governabili dal datore di lavoro e presente in tutti i contesti sociali, lavorativi e non. A tale rischio, dunque, il lavoratore è esposto tanto nel luogo di lavoro quanto in qualsiasi altro contesto sociale che determini il contatto con altri soggetti. In questa prospettiva il luogo di lavoro rappresenta, dunque, una ulteriore occasione ove il lavoratore può contrarre il virus.
Il rischio generico va distinto da quello specifico o c.d. endogeno che, al contrario del primo, è direttamente connesso alla mansione lavorativa posta in essere, vale a dire strettamente connaturato all’attività svolta. In questo ultimo caso, l’ambiente di lavoro figura quale fattore che introduce o dilata l’area di rischio.
Tra i rischi oggetto di obbligatoria valutazione, alla luce del Testo Unico salute e sicurezza, figura anche la categoria del rischio biologico nella quale, come anticipato, vi rientra anche il Covid-19.
Si potrebbe, quindi, essere indotti a ritenere che la nuova pandemia imponga al datore di lavoro di integrare ed aggiornare il DVR.
La questione è diffusamente discussa tra i tecnici e gli operatori di settore e trova soluzioni non sempre univoche.
Invero, da un’attenta lettura del Testo Unico salute e sicurezza, si evince che la redazione del DVR attenga esclusivamente a quelli connaturati all’attività lavorativa ed al processo produttivo ed impone al datore di lavoro di predisporre misure di prevenzione necessarie a prevenire detti rischi.
É sotto questa luce che va interpretato il rischio biologico generico, che quando non connesso all’attività lavorativa, esula da quello che è il contenuto obbligatorio del DVR.
Ne consegue che l’obbligo di aggiornamento del DVR riguardi esclusivamente quelle attività ove il rischio biologico sia un rischio professionale, endogeno, che trova la sua fonte direttamente nell’attività concretamente svolta. Tra queste rientrano, a titolo esemplificativo, le attività in cui si fa un utilizzo deliberato di agenti biologici o in cui si ha una possibilità di esposizione connaturata alla tipologia dell’attività svolta, dunque, ambienti sanitari, socio-sanitari o laboratori di ricerca.
Al contrario, in relazione a tutti gli ambienti lavorativi non sanitari, dove il rischio biologico è esclusivamente generico, esogeno, non sussiste l’obbligo di aggiornamento del DVR.
A tali conclusioni sono pervenute anche alcune Regioni, quali ad esempio la Regione Veneto (tra le prime ad affrontare l’emergenza) oltre all’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la circolare del 13 marzo 2020.
Possiamo trarre una prima conclusione che solo apparentemente sembrerebbe dare luogo ad una dicotomia: il datore di lavoro è tenuto a tutelare i propri dipendenti dal rischio di contagio apprestando tutte le misure di sicurezza necessarie a ridurre detto rischio, tuttavia, non ha alcun obbligo di aggiornamento del DVR, qualora, lo si ribadisce, si verta in ambienti di lavoro non sanitario.
L’adempimento di tali obblighi – pur non comprendendo una nuova valutazione dei rischi con la conseguente sanzione nel caso di omissione – richiede, in ogni caso, una condotta attiva da parte del datore di lavoro nella predisposizione di misure concrete tese a contenere il rischio di contagio, allineandosi alle raccomandazioni impartite dalle autorità a livello nazionale e regionale.
Quanto alle misure da adottare concretamente, la normativa emergenziale ha introdotto una serie di raccomandazioni rivolte a tutte le attività produttive industriali e commerciali, raccomandazioni che hanno trovato specifica attuazione nel Protocollo firmato in data 14 marzo 2020, sottoscritto da Governo, organizzazioni datoriali e sindacali recante la “regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro non sanitari”.
Per scongiurare la diffusione del contagio, il Governo, con più decreti, ha sospeso tutte le attività commerciali, produttive e industriali, salvo quelle ritenute essenziali, di cui al tassativo elenco contenuto nell’allegato al dpcm 22 marzo 2020 n.6 come modificato dal decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 25 marzo 2020.
Accanto ad esse, residuano attività che possono non essere sospese in quanto ritenute collaterali o a servizio delle prime, a condizione però che l’azienda offra garanzia di rispetto delle norme di sicurezza anticontagio.
In tal caso la possibilità di esercizio dell’attività è condizionata ad una comunicazione/autorizzazione amministrativa volta a consentire la continuità produttiva delle aziende appartenenti alla filiera delle c.d. attività essenziali, previa verifica del rispetto delle condizioni di sicurezza.
Lo stesso dpcm, poi, all’art. 3 codifica – per tutte le imprese le cui attività non siano sospese (perché rientranti nelle attività di cui all’allegato 1 oppure perché autorizzate dall’Autorità prefettizia) – in cosa consista lo specifico obbligo di sicurezza, mediante il richiamo alla obbligatorietà del rispetto dei contenuti del Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali.
É indubbio, quindi, che il Protocollo rappresenti un indispensabile strumento per il datore di lavoro in quanto fornisce le linee guida necessarie per la predisposizione delle misure atte a contenere il rischio epidemiologico, esonerandolo, in ambito civilistico, dalla prova diabolica di aver fatto tutto quanto necessario a garantire la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, così come richiesta dal paradigma normativo generale di cui all’art. 2087 c.c., già citato.
Tuttavia, non esime lo stesso dall’adottare ulteriori precauzioni nel caso in cui la concreta e specifica organizzazione aziendale lo richieda.
Senza alcuna pretesa di esaustività, il Protocollo, richiamando le raccomandazioni del dpcm 11 marzo 2020, elenca le seguenti attività che devono essere regolamentate per le finalità di prevenzione:

  • le modalità di ingresso ed uscita dei dipendenti dall’azienda e di accesso dei fornitori esterni, la gestione degli spazi comuni (mensa, spogliatoi, aree fumatori, distributori di bevande e snack ecc…), gli spostamenti interni, le riunioni, gli eventi e la formazione oltre l’organizzazione aziendale (turnazioni, trasferte, smart work e rimodulazione dei livelli produttivi);
  • l’igiene personale di ciascun lavoratore e la pulizia e sanificazione dell’azienda;
  • la fornitura di dispositivi di protezione individuale;
  • la sorveglianza sanitaria e la gestione di soggetto sintomatico nell’ambiente di lavoro;
  • l’informazione nei confronti dei dipendenti;
  • la costituzione in azienda di un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del RLS.

Vi è poi da chiarire come veicolare all’interno della realtà aziendale le linee guida adottate nel Protocollo e, quindi, individuare le modalità concrete con cui il datore di lavoro possa scongiurare sia il rischio di contagio sia quello di una eventuale contestazione penale.
Va chiarito, infatti, che una volta stabilito che sussiste una posizione di garanzia in capo al datore di lavoro in relazione al rischio di contagio dei propri dipendenti, nel caso in cui questi non si sia attivato e si verifichi l’evento da scongiurare (rectius contagio), può vedersi contestati reati quali le lesioni colpose o – nei casi più gravi – l’omicidio colposo.
Strumento privilegiato in tale senso è indubbiamente rappresentato dai modelli organizzativi di cui al D. Lvo. 231/2001 che andrebbero adottati o aggiornati rispetto alla nuova emergenza epidemiologica. Questo tipo di strumento ha il pregio di apprestare una tutela giuridica non solo al datore di lavoro ma anche all’Ente.
Tuttavia, in assenza di modelli organizzativi 231 residuano altre possibilità che, se non coprono una eventuale responsabilità dell’Ente, ben posso essere utilmente spese per evitare possibili future contestazioni al datore di lavoro.
Un ottimo spunto di riflessione viene offerto dalla già citata circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ove si legge: “è consigliabile formalizzare l’azione del datore di lavoro con atti che diano conto dell’attenzione posta al problema in termini di misure, comunque adottate ed adottabili dal punto di vista tecnico, organizzativo e procedurale, nonché dei DPI ritenuti necessari, in attuazione delle indicazioni nazionali, regionali e locali delle istituzioni a ciò preposte. Per la tracciabilità delle azioni così messe in campo è opportuno che dette misure, pur non originando dalla classica valutazione del rischio tipica del datore di lavoro, vengano raccolte per costituire un’appendice del DVR a dimostrazione di aver agito al meglio, anche al di là dei precetti specifici del d.lgs. n. 81/2008”.
Pertanto, il datore di lavoro, al fine di evitare future contestazioni, dovrà formalizzare le azioni poste in essere e procedimentalizzare l’adeguamento aziendale alle linee guida.
Infatti, qualora nonostante l’adeguamento e la procedimentalizzazione delle linee guida, si verificasse all’interno dell’azienda un caso di contagio, la formalizzazione delle misure ed il controllo del rispetto delle medesime attesterebbero come il datore di lavoro abbia fatto tutto quanto necessario al fine di scongiurare l’evento stesso.
Da ultimo, non deve essere sottovalutato l’ulteriore profilo difensivo rappresentato dalla prova, che spetterebbe all’Accusa, della sicura riconducibilità del contagio all’interno del luogo di lavoro; qualora, questo quesito trovasse risposta affermativa, l’Accusa dovrebbe, altresì, dimostrare che il contagio intraziendale sia avvenuto in ragione di una “falla” nella predisposizione o nel controllo del rispetto delle procedure adottate.
Concludendo, gli imprenditori dovranno necessariamente attivarsi e predisporre le procedure necessarie per il contenimento del contagio intraziendale al fine di scongiurare possibili e future contestazioni sia sul piano civilistico che penalistico.

Avv. Andrea Di Giuliomaria